Anna Lombardo. Il filo rosso della parola

di Luigi Cannillo

Anna Lombardo

Anna Lombardo scrive con due percorsi di stile che si alternano e talvolta si intrecciano: uno tendenzialmente più verticale e l’altro più orizzontale, in estensione o sottrazione di elementi a seconda dei casi. Scopriamo la prima modalità per esempio nei testi sintetici di Con candide mani, nei quali è accentuato l’aspetto del pudore dei sentimenti, di fronte alla perdita: “Misurare la distanza tra te e un fiore/ controllare quanto sangue/ cola lungo le ferite/ considerare il vuoto, il pieno/ la mancanza”. Come osserva Alessandro Cabianca nella prefazione alla raccolta “A volte un profluvio di parole non comunica quanto una sospensione o un silenzio. L’ansia che produce un silenzio, quando se ne coglie il vuoto, non è lo stesso tipo di ansia che produce un silenzio carico di suggestioni e di quella serenità che deriva dal coglierne i significati appena accennati. […] Il turbamento che discende da quel che non si potrebbe accettare se non con un atto di rimozione viene accennato nel momento della presa d’atto che l’irreparabile è compiuto e che solo una parola ridà corpo all’esperienza vissuta e in certo senso la giustifica”  Anche nel testo conclusivo della sequenza proposta, Scalcia terra, la suddivisione in strofe e la ritmica concentrano il cerchio della tensione attraverso ‘elemento dell’essenzialità.

La seconda tendenza compositiva dell’autrice è invece orizzontale, si dispiega in una misura più estesa di testi e versi. Racconta storie, espone impegno e denunce in modo partecipato e appassionato. Corrisponde a una sensibilità di critica sociale che preferisce essere esplicita come nel testo Per Nirmal Singh – morto assiderato nell’ex stabilimento di via Tempini a Brescia l’11-12-2012 contenuto nell’antologia La nostra classe sepolta – Cronache poetiche dal mondo del lavoro. E di cronaca sensibile si può trattare, di attenzione al contemporaneo, anche nella denuncia del degrado dei luoghi, dell’inquietudine osservando che “Una pletora di selfie/ Immortala sospira di chiome/ Ammalate al vento e tutto si adagia/ Nel fluire minaccioso del tempo.” O nel rivendicare comuni radici affermando l’esigenza di pace e giustizia in In caso l’abbia tu scordato…

Anna Lombardo si pone in modo altrettanto critico e dialettico se non dubbioso, rispetto alla stessa parola, e in particolare alla parola poetica, nella ricerca (anche auto/critica) di un percorso che resti dentro il Sogno, la speranza, che non perda contatto con l’Utopia: “Riduco parole troppo all’osso/ o è l’osso che si è rimpicciolito/ come gli occhi che stringono/ il cielo per costellazioni nuove?” In questa epoca, in questo contesto, non è più possibile dire “di sbieco” quando tutto sembra arrivare di traverso: l’espressione diretta e immediata consente posizioni nette, quindi trasmette consapevolezza e condivisione.

Già nel primo testo antologizzato, edito nella rivista Le voci della Luna l’autrice concludeva: “Cerca tra le perle delle tue mani/ una parola nuova, nuova eco/ che risuoni nelle vene come fruscio d’amore/ nelle frasche, un filo rosso attrarre/ e prendere a srotolare.”   L’energia verbale, il filo rosso trova sintesi particolarmente felice proprio in quella stessa poesia, nella caratteristica allegorica dei testi dove verticalità e orizzontalità convivono, nel rapporto disincantato tra realtà e trasformazione in un tempo nuovo “veloce e capriccioso”. Si tratta di una poesia piena di interrogativi rispetto ai risultati e alle prospettive dell’agire (Cosa peggiorò la vista? Cosa mancò allo sforzo? Ricominciare con gli orizzonti offuscati?), in un paesaggio spazio- temporale che ricorda nella sua desolazione la Waste Land di Eliot. E proprio nell’alternarsi di ampi slanci e concisione, nella ricerca di una sintesi tra ideali e vivere quotidiano che si possono tentare delle risposte agli interrogativi, che interiorità e coscienza sociale possono ritrovarsi e coincidere sviluppando ricerca di senso. All’interno di questa ricerca la parola, e in particolare la parola poetica, resta elemento essenziale di comunicazione e relazione, preziosa in una poesia che sia essa stessa componente fondamentale di comprensione e rappresentazione della realtà. Il tratto comune non solo da riuscire a creare o attrarre, ma da “srotolare” tra gli eventi.

da Quel qualcosa che manca/The something that’s missing, Le Voci della Luna, 2009

Appuntite lame picchiettano

insistenti le spalle peregrine
di questo tempo. Fingiamo che l’estate
sia un bel canto e gli scherzi del cielo
un beccheggio sul mare.

Son stagioni che perdurano ora tanto
quelle che soffocano riso e pianto e
mani aperte come ciglio di un bimbo
sonnecchiante. Ah, questo secolo andante!

Sono minuti abbozzi di uccelli
i pensieri senza ali, cinguettano
le sinistre ombre sempre più sorde
alle sirene antiche.

Ora il tempo è nuovo come l’acqua
che nuova s’è seccata e più non si
congiunge con l’amata terra. Cosa peggiorò
la vista? Cosa manco allo sforzo?

Celata nella gabbia delle pulci la lotta
del vivere quotidiano e a schermo
un pensile giardino per occhi
di sconvolti emigranti. Ricominciare
con gli orizzonti offuscati?

Davvero il sole compie la salita
La terra ondeggia e il cielo spinge?
Tieniti in grembo le astuzie; il tempo
È veloce e capriccioso ora
E tutto sembra un film mal digerito.

Cerca tra le perle delle tue mani
una parola nuova, nuova eco
che risuoni nelle vene come fruscio d’amore
nelle frasche, un filo rosso attrarre
e prendere a srotolare.

* * *

dall’antologia La nostra classe sepolta – Cronache poetiche dal mondo del lavoro, Ed. Pietre Vive, 2019

PER NIRMAL SINGH
morto assiderato nell’ex stabilimento di via Tempini a Brescia l’11-12-2012

La notte che avvolge con candidi o fiorati cuscini
il tuo morbido corpo
la notte tanto attesa dagli innamorati
– quel vestito che la terra indossa con eleganza e mistero
che risveglia o addormenta per sempre –
è la notte che interrompe l’arsura del giorno
quel buio che è amico a chi non vede oltre lo sguardo
della sua calda casa-confine.
La notte buia del nostro continente
si è chiusa indifferente sul corpo di Nirmal Singh
indiano di 36 anni giunto nel 2002 in attesa di permesso.
Nirmal Singh costretto nella notte fredda bresciana
dal nostro grado zero di accoglienza.
Avrà mai peso quella sua ultima notte
nelle nostre notti di “pace occidentale”
per noi che ci teniamo sepolti
in un mare di sillabe ancora pazienti?

* * *

da Con candide mani, Proget Ed., 2020

Misurare la distanza tra te e un fiore
controllare quanto sangue
cola lungo le ferite
considerare il vuoto, il pieno
la mancanza

quell’assenza che imprigiona la corolla
del fiore reciso non si sa quando
è l’esercizio mentale
più intransigente adesso

che si fa spazio fin negli spazi
più remoti della mente

***

Tutto è un caos momentaneamente
eterno, il rosicchiare delle menti

quel torpore che accorcia le distanze
tra l’alba e il sonno
e spezza ogni remota speranza

di stare dentro al sogno
come uccello fuori dalla gabbia

 

 

INEDITI

Quei luoghi che di noi dicono tutto

Quei luoghi che di noi dicono tutto
Dovrebbero parlare, chiudersi alle passerelle
Comiziali, alle genuflessioni, alle dichiarazioni
D’amore smisurato

Quei luoghi calpestati, sviliti e svuotati
Giorno dopo giorno,
Sole e pioggia, acqua infetta
Mani e piedi restii a cambiamenti

E tuttavia, quei luoghi serbano
Ancora speranza a me mentre
La nostra luce riflette un corpo
Adombrato di carcasse umane

Una pletora di selfie
Immortala sospiri di chiome
Ammalate al vento e tutto si adagia
Nel fluire minaccioso del tempo

(Venezia, ottobre 2020)

** *

 

Presagi

1.

Questo mondo non parla
S’azzuffa, cane in cerca di ossi
Ammaliato da robotiche sentinelle
Del divenire. Tornare ai vecchi campi
Profumare di brezza in colloquio col mare
Violaceo, vestiti da predatori coi coltelli
In mano. Un sospiro che
Si spegne. Uno su tutti, tutti su uno
Prediche giornaliere in fumetti
Affamati. Rispecchiamento. Il sale
Si insinua tra maniche, orpelli di ogni
Tipo e valore. Parola s’inceppa; i nervi
Fuscelli alla deriva. Il dialogo con stelle
Sconfitte tra radar, droni, pazzie
Di occidente e di oriente incuneato
Tra religione e scienza.

[…]

(Venezia, 29/12/2020)

* * *

da NON SO PIÙ DIRE DI SBIECO

Tell all the truth, but tell it slant (Emily Dickinson)

1.

Io non so
Più dire di sbieco
Ora le ore
S’accorciano lente
Si sono accorte del tempo
Quell’ombra che ti precede
Lieve senza mai
Voltar le spalle

Schiuma bianca
Vapore malefico
Nei versi
Stampigliati
Ai bordi sbordati delle strade

Il vento è di traverso
Patti inutilmente infruttuosi-
No, non so più dire
Di
Sbieco

(Venezia, 2022)

* * *

In caso l’abbia tu scordato
veniamo dalle stesse cellule di madre
colei che semina
ostinata questa terra

Lo vedo come l’hai dimenticata
come quel suo affanno non ti appartiene
da come abbracci quel fucile
come semini odio anche tra alberi più dimessi

C’è uno spessore altro nel respiro
profondo che percuote il cuore
giunge allo sterno, poi stringe la gola
un fumo che disegna corpi attorcigliati

Gravidi di ragioni e torti inutili quanto
il battito di una mano sola sull’orlo
del proprio pregiudizio. Io mi ripiglio
certo l’alba dorata piuttosto

Che il fosco giorno. Nebbia
e torpore rigurgita ogni momento
e stanco ora ritorna il pensiero
al viaggio glaciale dei nostri tempi insani

Riduco parole troppo all’osso
o e l’osso che si è rimpicciolito
come gli occhi che stringono
il cielo per costellazioni nuove?

Il cerchio si inebria di luce
forse solo quando luce non riflette
il cerchio vuoto di passi stanchi
e mani appese a esili rami

Come ricami su tende che il sole
tende a scolorire: io, l’altrove, tu e il quando
e il come? Sottraggo intanto
l’amore mio da questo inferno

Gli dico che stare dentro il sogno
spinge speranze, spazza il vento
nei solchi di verità
nude e scintillanti

Perché veniamo dalle stesse cellule
di madre, colei che semina
ostinata quest’altra terra che giorno
e notte mi arde di parole

(Venezia, 9/6/2022)

* * *

Scalcia terra
Vento inquieta
Rovente s’abbatte sole

Se cerchi passato
Presente o futuro
Volgi lo sguardo
Al mare increspato

A fatica solleva corpi
In fuga sull’onda
Dei disastri nostri

Scalcia terra
Inquieti ultimi alberi
Ultimi respiri

Tu resta

(Venezia, 2022)

Nota Biobibliografica
Anna Lombardo: Vive a Venezia. Poetessa, traduttrice e attivista culturale. Laurea in Lingue presso Università Ca’ Foscari di Venezia; PhD sulla marginalizzazione della scrittura poetica femminile presso il Trinity College di Dublino. Raccolte poetiche bilingue: Anche i Pesci Ubriachi (2002); Nessun Alibi (2004); Quel qualcosa che manca (2009); Con Candide mani (2020). Ha curato le seguenti antologie: C’è chi crede nei sogni (2014); 15×15 la fotografia incontra la poesia (2020); Quaderni della Palabra Numeri:1-2-3- (2020-2021-2022), La Traduzione al tempo del Covid (2021). Lavori critici e di traduzioni di vari autori e autrici, tra i quali: A. Lowell, J. Hirschman, J. Lussu, PP. Pasolini, Chi Trung e Matt Sedillo. Suoi testi, tradotti in varie lingue sono presenti in riviste ed antologie nazionali ed internazionali. Ospite in molti festival internazionali (U.S.A., India, Irak, Colombia). Collabora con il Global Right e con il World Poetry Movement. Alcuni testi in inglese sono presenti nell’ultimo numero internazionale del Poetry Planetariat Number 4 (2020) e Voices from Far and Near (2020). Dal 2012 cura la direzione artistica del FIP (Festival Internazionale di Poesia) Palabra en el Mundo per Venezia che annualmente accoglie diverse voci nazionali ed internazionali.

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La notte

di ALESSANDRA PAGANARDI

(Italia, 1961) 

Durata: 122 minuti
Genere: Drammatico
Anno: 1961
Regia: Michelangelo Antonioni
Attori: Monica Vitti, Marcello Mastroianni, Jeanne Moreau, Rosy Mazzacurati, Bernhard Wicki.
Sceneggiatura: Michelangelo Antonioni, Ennio Flaiano, Tonino Guerra
Fotografia: Gianni Di Venanzo
Montaggio: Eraldo Da Roma
Musiche: Giorgio Gaslini

La morte di un amico è (letteralmente) un momento critico nella vita di una persona: non soltanto per l’inevitabile dolore che procura. “Critico” rimanda a “crisi”, scelta. Una persona con cui si sono condivisi momenti felici o meno felici scompare e ci costringe a ridisegnare la mappa della nostra vita, a ripensare a quei momenti e alle scelte passate che hanno determinato le nostre conquiste, forse le nostre frustrazioni. Senza contare che l’amico è generalmente un coetaneo: questo dato banalmente generazionale ci mette di fronte alla nostra morte imminente, alla tremenda fragilità del tutto.

Per Giovanni, scrittore di successo, e per la sua nevrotica moglie Lidia, la malattia terminale e la morte dell’amico Tommaso aprono un varco su un matrimonio al capolinea, ma soprattutto su problemi e dilemmi esistenziali mai risolti: la solitudine, la fedeltà, la passione, il rapporto con il successo e con il denaro, la vacuità e strumentalità dei rapporti umani ̶ forse persino di quelli più intimi e profondi. Sarà un’occasione mondana, nel corso della notte, a far emergere i conflitti latenti, ma soprattutto a rappresentare, in uno scenario sociale apparentemente ricco di ottimismo e di progetti (Milano in pieno boom economico), il vuoto esistenziale che attanaglia la città. Dietro il paravento rassicurante della ricostruzione, e forse proprio dietro l’ansia di modificare radicalmente il panorama metropolitano nel senso di una modernizzazione accelerata, si celano ancora vive le ferite di guerra; nell’ipocrisia e nella forzatura delle relazioni borghesi si legge la frettolosa rimozione del recente, doloroso conflitto civile. La peculiarità del film, in pieno stile antonioniano ̶ soprattutto se consideriamo la cosiddetta “trilogia dell’incomunicabilità”, di cui La notte fa parte ̶ sta nel rappresentare il disagio attraverso la doppia focale interna ed esterna: da un lato campi lunghi su una città ancora deturpata e in rapidissima trasformazione, dall’altro dettagli catturati al microscopio o al rallentatore e dialoghi fortemente intimistici, tipici di certa cinematografia francese, che sappiamo ben presente al regista. Non a caso lo stesso Roland Barthes ha dedicato pagine molto profonde al cinema di Antonioni, definendolo “di vigilanza”; si è parlato diffusamente anche di “soggettività senza soggetto”. Vanno viste in tal senso le lunghe passeggiate di Lidia fra ruspe, macerie, scene di violenza e indifferenza gratuite fino al surreale (memorabile la scena collettiva del pestaggio in una periferia desolata); i passaggi di aerei a bassa quota, fin troppo scopertamente perturbanti di per sé, ma resi soggettivamente ancor più inquietanti attraverso la postura, le movenze e le espressioni dei protagonisti.

Si esce da questo film, meritatamente premiato con l’Orso d’oro al Festival di Berlino, con la precisa sensazione del fallimento totale del linguaggio, ove si tratti di comunicare i sentimenti e soprattutto le emozioni. Il cinema di Antonioni è un cinema di sensazioni, o meglio un cinema di pensiero innestato direttamente sulle sensazioni: senza l’artificiosa mediazione della parola, oppure attraverso la dimostrazione patente della sua insufficienza. Come Antonioni così anche Bergman, scomparso per un curioso caso lo stesso giorno, mese e anno del collega, ha dedicato ai sentimenti un’altra memorabile trilogia: come a dimostrare che una singola opera, forse neppure un’intera serie tematica può bastare a esaurire un tema tanto complesso. Ma mentre Bergman, figlio di un pastore luterano, è ossessionato dalla morte e dagli aspetti inconciliabili tra vita e fede, Antonioni affronta i dilemmi in maniera più laica e aperta, con un distacco che sfiora spesso il cinismo. Nella scena finale, che per ovvie ragioni non descrivo, la macchina da presa è traslata alle spalle degli attori e saluta lo spettatore con un memorabile campo lunghissimo dalle molteplici interpretazioni, che non suggerisce né conclude.  

La notte è un film lungo due ore d’orologio, ma appare mirabilmente rallentato, ai limiti delle quasi ventiquattro della vicenda. Se sussistesse qualche dubbio sul fatto che tempo e durata siano (bergsonianamente) entità affatto diverse, quest’opera starebbe a chiarirlo definitivamente: non con un pedante ragionamento filosofico, ma con l’evidenza sensibile, assoluta dell’arte. Forse il film andrebbe visto proprio di notte, non fosse altro che per introdurre lo spettatore nel tempo surreale dell’insonnia, di cui sembra esso stesso magicamente materiato: quel tempo strano in cui tutto appare più grande, ma nel quale la verità, pur rimanendo sempre irraggiungibile, a volte sembra per un attimo così prossima a disvelarsi.

                                                                                                             

La notte è visibile gratuitamente cliccando sul link

https://www.raiplay.it/programmi/lanotte

La frase famosa del film è: «Sono piena di vizi, ma senza praticarne nessuno».

Il Medioevo in 21 battaglie: la guerra come chiave di lettura della storia

di Rinaldo Caddeo

Guerra, fede, simboli, letteratura, miti del passato e del presente: una storia mondiale. Federico Canaccini, IL MEDIOEVO IN 21 BATTAGLIE, Laterza, Bari 2022.

    Non un elenco di battaglie famose, come l’autore stesso ci tiene a precisare nella Premessa, affidato a una Histoire-batalille, una storia fatta solo di battaglie che celebra la guerra, ma la guerra come chiave di accesso a ciò che viene messo in gioco sull’arena insanguinata della storia umana e in essa si commisura: fede, economia, tecnologia, società, progetti politici.    Ogni battaglia è una resa dei conti, un precipitato spazio-temporale di forze contrapposte e alleate, un apice drammatico in cui la fortuna e le umane virtù, cioè caso, capacità, valutazione, si sfidano, si confrontano, ricercano una loro soluzione. Ma niente nasce dal niente. Ci sono delle premesse e delle cause, vicine e lontane nel tempo e nello spazio.   L’ottica dell’autore non si limita a sfatare miti antichi e narrazioni correnti ma propone la ricerca costante di una prospettiva lunga, nel tempo e nello spazio, non eurocentrica, bensì mondiale delle linee di forza degli avvenimenti.   Portiamo, come esempio, la prima e l’ultima delle ventun battaglie.

Campi Catalaunici (451 d.C.): la prima, non definitiva, sconfitta di Attila, il re degli Unni. Da dove provenivano gli Unni? La risposta parte da lontano nel tempo e nello spazio: III sec. a.C. a nord della Cina. Al centro delle sconfinate steppe asiatiche. La muraglia cinese. Il primo Imperatore cinese: Qin Shihuang-di (221-206 a.C.), quello seppellito nella tomba circondata dall’esercito di terracotta: «Per quanto lontana sia, la Muraglia Cinese fu certamente una delle concause che contribuì in modo decisivo alla caduta prematura dell’Impero di Roma, come affermarono Uifalvy, Ross e Teggart. L’onda unna, frenata da questo gigantesco frangiflutti invalicabile, tornò indietro, sospingendo i numerosi popoli delle steppe verso occidente, fino a giungervi, da ultimo, essi stessi.» (Federico Canaccini, IL MEDIOEVO IN 21 BATTAGLIE, Laterza Bari, 2022, p.4).    L’autore, prima di analizzare la battaglia, ci parla di invasioni barbariche, del sacco di Roma del 410, di Ezio, l’ultimo grande Generale dell’Impero Romano d’occidente, prima alleato e poi nemico degli Unni. A capo di un esercito multietnico, li sconfisse nel 451 ai Campi Catalaunici, nel nord-est della Francia, grazie alla scelta vincente delle posizioni su cui schierare le proprie truppe e alla rapidità dei movimenti.    

Ciò che Canaccini sfata, in questa articolata e documentatissima disamina, è lo schema manicheo, spesso applicato a questa battaglia, di contrapposizione tra civiltà da una parte (i Romani) e barbarie dall’altra (gli Unni). Come è intitolato uno dei paragrafi, si tratta di barbari contro barbari, più o meno romanizzati. Gli stessi Unni, in occasioni precedenti, erano stati alleati di Ezio, lo stesso Attila, abile e spietato opportunista, non era l’incarnazione del diavolo e lo stesso Ezio era di sangue sciro.    Tenochtitlàn (1521), la battaglia/assedio con cui gli spagnoli di Cortés, alleati degli Tlaxaltechi, sconfiggono gli Aztechi, un popolo alacre e bellicoso e demoliscono la loro capitale. Uno dei paradigmi più distruttivi dell’incontro tra civiltà.   L’autore sfata il mito del buon selvaggio per quanto concerne la vita e l’organizzazione sofisticata della società azteca e certamente non aderisce alla teoria consolatoria che la società azteca potesse essere di tipo socialista.    Cortés fu abile nello sfruttare il malcontento dei popoli sottomessi dagli Aztechi: «Per Cortés, dunque, si profilava una preziosa alleanza multietnica. Sulla piana dei Campi Catalàunici, contro gli Unni, Ezio era a capo di un piccolo drappello di catafratti romani: il resto era una congerie barbarica di vari popoli germanici uniti a Roma contro gli Unni, “più barbari dei barbari”, alleati ad altri popoli barbarici, in lotta per una fetta più grande di terra. I dissensi interni tra i vari popoli del Centro America vengono quindi sapientemente sfruttati da un giovane ambizioso, dalle indubbie doti strategiche, che è a capo di un manipolo di alcune centinaia di Spagnoli, a capo di migliaia di guerrieri locali, con un rapporto anche di 10 cavalieri spagnoli per 10000 Indios.» (Federico Canaccini, Ibidem, p.484).   Cortés, una volta espugnata la città, sfruttando anche la superiorità tecnologica derivante dal possesso dei cavalli, delle armi di ferro e delle armi da fuoco, non ha scrupoli a saccheggiare i tesori dell’oreficeria azteca e a radere a suolo Tenochtitlàn, questa gigantesca Venezia, i suoi orti galleggianti, la sua diramata e fragile rete di ponti e canali, solcati da canoe e piroghe: «Con lenta e spietata sistematicità la città veniva rasa a suolo: la popolazione dell’antica capitale era poi decimata dalla fame e dalla sete, e colpita dal cosiddetto cocoliztli, cioè l’insieme delle malattie portate dagli Occidentali – quali il vaiolo, il tifo, il morbillo e, probabilmente, la salmonella – che, negli anni a venire, avrebbero provocato la morte di milioni di indigeni, portando, in cinquant’anni, la popolazione da venticinque milioni di abitanti a poco più  di due milioni e mezzo.» (Federico Canaccini, Ibidem, p.496).   Tra i Campi Catalaunici e Tenochtitlàn, si sdipana più di un millennio di storia, il cosiddetto Medioevo.   La guerra greco-gotica, l’espansionismo arabo con Maometto, i Vichinghi, gli Ungari, i Normanni, i Mongoli, la Guerra dei Cento Anni, la conquista di Costantinopoli, l’epoca delle navigazioni oceaniche da parte degli Europei.   

Ogni periodo una battaglia che lo caratterizza, ogni battaglia un’epoca. Ma ciò che rende particolarmente intrigante e innovativo il lavoro di Canaccini è un ulteriore aspetto. Canaccini non si limita alla storiografia e non disdegna di misurarsi con la cronaca, il teatro, la letteratura, la cinematografia, moderni e/o contemporanei che permettono di scavare in profondità nelle simbolizzazioni e nelle mitografie e di connettere il passato, non lasciandolo isolato in un’inafferrabile unicità, con il presente. Viene in mente quanto sostenuto sia da Croce sia da Gramsci, che tutta la storia è storia contemporanea e si potrebbe aggiungere storia dei media, dei giudizi /pregiudizi, delle narrazioni, dei simboli e dei miti che si stratificano nel tempo.      

A proposito di una delle figure più controverse del Medioevo europeo, Giovanni il Senzaterra, nel capitolo della Battaglia delle Nazioni, Bouvines, 1214, il giudizio viene filtrato passando dal teatro (Shakespeare) alla letteratura fantastica (Buzzati) ai cartoni animati (Walt Disney): «William Shakespeare, nel 1603, ne fece un sovrano irascibile e violento, tormentato dalle sue debolezze, incline allo sfarzo: forse in quanto ultimogenito di Enrico II, dalla storiografia alla letteratura, emerge un ritratto di un tiranno frustrato e folle, senza contare che uno dei suoi titoli era softsword, una sorta di “spadamoscia”, per le sue non proprio brillanti virtù militari, forse anche irridente della sua stessa virilità. Nelle sue vene, in fin dei conti, scorreva il sangue di Melusina, la fata rappresentata araldicamente come una chimera, un essere mostruoso e diabolico, progenitrice della famiglia da Lusignano. Le Melusine, per dirla con Dino Buzzati, “vengono dai piccoli pertugi neri del tronco preistorico e secco, perlustrato dalle formiche a miriadi” e quando alla sera “i ciuffi, i gruppi di faggi, di carpini, di querce, di alberi antichi, stanchi e strampalati, si richiudono neri, allora dalle radici dei fossi escono le Melusine”. L’opera di Buzzati, Poema a fumetti, uno dei primissimi graphic novel dell’editoria, fu pubblicato nel 1969, quattro prima dell’uscita del celebre film a cartoni animati prodotto dalla Disney, Robin Hood, in cui Giovanni è certamente un leone, ma non ne ha di sicuro il cuore come Riccardo, se viene ritratto mentre si ciuccia il pollice come un lattante, con un mantello fuori misura e gioielli inappropriati, a bordo di una carrozza degna del re Sole e con una corona – metafora meravigliosa! – certamente troppo larga per lui, falso re, un phoney, usurpatore di quel titolo che sarebbe spettato ad Arturo di Bretagna di cui aveva ordito l’omicidio.» (Canaccini, Ibidem, p.268).      

A proposito, invece, della Battaglia sul lago ghiacciato, Peijpus, 1242, tra Russi e Cavalieri Teutonici, (vinta dai Russi), il capitolo esordisce con il riferimento al film di Sergei Ejzenštejn, del 1938, Aleksandr Nevskij, tragica profezia degli eventi della II Guerra Mondiale. Il dettaglio spettacolare, nel film, dei Cavalieri Teutonici inghiottiti dalle acque del lago, quando il ghiaccio che li sorreggeva si spezza, l’autore ci spiega come non sia testimoniato da nessun documento storico attendibile, ma come sia un’invenzione mitologica che sorge tre secoli dopo la data della battaglia, quando Nevskij viene canonizzato (1547), dalla Chiesa Ortodossa: «si tratta, in fondo, di un’analogia con la punizione inflitta da Dio agli egiziani, travolti dalle acque del Mar Rosso attraverso le quali è passato indenne il Popolo Eletto.» (Canaccini, Ibidem, p.303).   Nel 1709 Carlo XII di Svezia viene sonoramente sconfitto da Pietro il Grande a Poltava. Finita la guerra con la Svezia, la zarina Caterina I inaugura l’Ordine imperiale di Sant’Aleksandr Nevskij, ordine cavalleresco e onorificenza concessa ai sudditi russi che si sono distinti in guerra. Dopo due secoli l’Ordine viene abolito dalla Rivoluzione d’Ottobre. Viene ripristinato nel 1942 da Stalin, cassando le voci imperiale e Santo. L’onorificenza viene rifondata da Putin, concessa a personaggi che si sono distinti nello Stato, nella cultura, nell’industria o in altre attività a servizio della comunità. Tra gli insigniti figura il Patriarca Cirillo I di Mosca: «e suonano sinistre le parole pronunciate da Cirillo I nel 2022: “L’offensiva in Ucraina è una lotta contro il nazismo, contro le forze del Male” e “i nostri soldati stanno portando a termine la missione dei nostri antenati che combatterono la Grande Guerra Patriottica”. “Siamo entrati in una lotta che non ha un senso fisico, ma metafisico […]. Stiamo parlando di qualcosa di molto più importante della politica. Si tratta della salvezza umana, di dove andrà a finire l’umanità, del posto che occuperà alla destra o alla sinistra di Dio”.» (Canaccini, Ibidem, p.305). 

 

Qualcosa di speciale

di Alessandro Magherini

Usa, 2009
Di Brandon Camp
Sceneggiatura: Brandon Camp, Mike Thompson
Fotografia: Eric Alan Edwards
Montaggio: Dana E. Glauberman
Musiche: Christopher Young
Con Aaron Eckhart, Jennifer Aniston, Martin Sheen, Dan Fogler, Judy Greer, John Carroll Lynch
Durata: 109 min. 

Okay, dice Ryan entrando nella platea affollata e lo ribadisce unendo a cerchio il pollice e l’indice nel tipico gesto. “A-Okay” è il titolo del seminario che tiene in un grande albergo di Seattle e Un sentiero attraverso il dolore è il libro che gli ha dato la celebrità. In realtà Ryan è un mentitore accanito, ha scritto quel libro per fuggire il dolore della perdita della moglie in un incidente stradale e per mascherare il proprio senso di colpa. Il testo, un manuale per elaborare il lutto, è una grande finzione perché l’autore non ha affrontato né elaborato un bel niente, ma ha fatto di Ryan un uomo di successo che viaggia da un capo all’altro degli States a tenere workshop e a firmare copie.

Ryan è rigido come un manico di scopa e ha paura ad entrare in un ascensore ma sa affascinare le sue platee sofferenti che lo seguono e lo adorano.

Se tutto restasse così non ci sarebbe storia, nessun viaggio interiore, nessuna trasformazione. Il film parte da queste premesse per arrivare a uno scioglimento che prefigura una rinascita per il protagonista. Attorno al quale si muovono alcuni personaggi chiave: Eloise, fiorista capace di vedere oltre le apparenze e di essere coerente con il proprio sentire; Lane, agente di Ryan, abile a farne fruttare il talento pur sapendo che si tratta di un bluff; Marty, aiutante di Eloise, autrice di poesie femministe con cui partecipa a incontri di slam poetry; infine Walter, che partecipa con riluttanza al seminario, e il suocero di Ryan: due personaggi laterali ma importanti nello smascherare la grande finzione.

Qualcosa di speciale è un film leggero e dallo svolgimento un po’ prevedibile, ma non sciocco: il tema dei personaggi carismatici, predicatori, leader e psicopompi e del loro rapporto con le masse e il mercato è attuale ed interessante: il film lo tratta con garbo e anche con un certo senso dell’umorismo, si fa vedere senza annoiare e non senza offrire spunti di riflessione allo spettatore.

Il film è visibile gratuitamente su Raiplay: 

https://www.raiplay.it/video/2017/01/Qualcosa-di-speciale-568c9965-540c-430a-a4b8-d636c46b89df.html

La “frase celebre” (da una performance di Marty):

Tu e il tuo fallo potete anche conquistare il mondo / ma quest’amazzone bastarda / ti taglierà le ali!     

ANTONELLA DORIA. Il poema ininterrotto

di Luigi Cannillo

Antonella Doria

Al centro della poesia di Antonella Doria si è andata realizzando progressivamente la concezione – e la pratica – di un poema incessante. Sia nelle singole raccolte che attraverso l’opera, complessivamente intesa, che si è sedimentata nel tempo. Alle fondamenta di questa concezione appartiene (e non solo inizialmente, nel titolo della prima raccolta) l’elemento acqua: per le sue caratteristiche di fluidità, di memoria ancestrale. E, successivamente, il mare, che nella sua natura separa e unisce paesi, in particolare il Mediterraneo come via di comunicazione, culla di culture, percorso di speranza e di tragedia dei fenomeni di migrazione. Infine, alla conclusione del viaggio, l’approdo, il porto, la metropoli con l’incrociarsi di corpi e destini, nella condizione dell’esilio.

Lo scorrere, il sovrapporsi e la profondità caratterizzano l’incontro nelle via d’acqua e di terra, nei continui rivolgimenti della Storia e delle Ere, nel riunire e separare individui come in un maremoto o per ondate lunghe e continue. A questo fenomeni possono attingere sia la percezione del quotidiano che l’attualità del Mito o la continuità del Materno. In un confluire e defluire, in un addensarsi e diradarsi che è proprio dell’elemento acquatico. 

Giulia Niccolai sottolinea nella Nota introduttiva a Millantanni – una trilogia. Edizioni del verri, 2015, la continuità esistente nelle diverse opere di Antonella Doria, tra Palermo e Milano, osservando in particolare, riguardo all’aspetto del linguaggio: “Ma in tutta l’opera di questa autrice è sempre riconoscibile una perfetta estraneità narrativa: un io che riesce a scomparire nel controllo  della congestione dei versi in una sua severissima griglia interiore che le permette ogni volta di traghettare – per bravura linguistica – da un mondo polimorfo e avvolgente a un singolo anneddoto zoomato e chiarissimo, nel quale ognuno di noi si ritrova e si emoziona.” Lo zoom operato da Antonella Doria mette in luce, magari talvolta anche per il tempo di un verso o di una sequenza brevissima, un singolo elemento. Come in un flash, o un appunto solo accennato. Può riferirsi alla tematica della tossicodipendenza, “Stringhe Lise/ Altri di droga Spenti”, ai luoghi del mito, “Colchide d’oro o verde/ umile Itaca?”  oppure a loro personaggi o figure: il Vello d’oro o “monstri argonauti ulissi”. Altre volte è la rete dei corpi a emergere; “tessere d’esistenza/ al passaggio d’ogni marea”, “sempre vedrai/ corpi nel tempo in carne/ e ossa”. Corpi che “si fanno parola/ e sguardi muti solcano/ il lastrico sconnesso di strade/ toccano la soglia di corpi/ contigui segnano un verbo/ incarnato nel fiato nella fecondità”.  Tra i testi qui presentati non manca poi l’uso del siciliano, in una ninna nanna che, nella propria lingua madre, tra lontananza e vicinanza delle figure madre e figlia, suggerisce un doppio ruolo nello scambio di esperienze e vissuti. 

La dinamica incessante dei temi e del tono trova rispondenza assoluta negli aspetti stilistici. L’oscillazione, la sospensione dei versi e dei testi danno origine a una partitura che, in continuità attraverso le raccolte, si incontra con la declinazione delle singole parole, nell’uso di allitterazioni, in assonanze, neologismi, rime interne, composizioni o scomposizioni di singoli elementi verbali. E ancora: nell’assenza di punteggiatura, in uno stile prevalentemente nominale, con una sintassi essenziale. Ricorrendo magari all’uso espressivo delle parentesi, dei corsivi, delle maiuscole. Inoltre, sotto l’aspetto grafico nella stesura del testo, la distanza fra gli elementi non è quella convenzionale, ma può variare. Si crea così una tessitura tra spaziature diverse che può conferire a vuoti e pieni la caratteristica di sospensione del significato, creare effetti stranianti o riprese di senso.

La poesia di Antonella Doria è una scrittura del transito sotto ogni punto di vista: dalla riva di partenza a quella di approdo, dal conosciuto allo sconosciuto, dall’emerso al sommerso, dai luoghi naturali alle aree urbane, dalla memoria al presagio, nello stesso riaffermarsi del principio dell’esistenza e della materia: “Vedrai…/ batte ancora il cuore/ in pancia alla terra/ selvaggio fra il fugace/ e l’eterno […]”.

Da Altreacque, Book Editore, 1998

*
A ruota libera
Di corsa quasi per caso
Sotto il tavolo del Bar
Non hai più naso
S’impenna il Cavallo da chimera
C’è già chi aspetta l’asso
Romba il Motore
L’osso del collo fuorifase
Ignota culla mania i cervelli
Stupefacente luogo del Mattino
Siringhe Lise
Altri di droga Spenti
Non dà Requie il perdutoparadiso
Artificiale è Altrove

 

*
naviga. Fantasmi
dei mari dell’onda al picco
internet danzano: Supremi
Spazi remoti apparenze
fende furti forse
carnali abissi
rimanda minacciosi immateriali
presenze
: spasmi osceni
in oceanideliri annegata
divora vorace
la Mente

 

*
‘nnaca dda naca d’organza bianca
chiànci nica chianci puru mmrazza
tu amurusa mi teni sutt’a l’ali
e m’arricògghi sonnu ‘ntra lu mantu
e chianu chianu
dintra di ‘na núvula, lèggia
mi n’acchianu
Cantavi cunti di n’isula luntana, canti
cuntavi pi chista mia vicina
quannu ca dòrmi cca allatu a mia
si’ tu me matri
eppuru a mia figghia mi pari
Tu mi ‘nnacavi e mi tinevi mmrazza
e litanii nuveni a l’ànima cantavi
pi ninna-nanna
iu ti sintía … sempri chiú luntana
dintra dda naca d’organza bianca

(ninna-nanna, cercando la mamma)

da Mediterranea, Ibiskos, 2005

*

medi terranea riva
luogo primordiale del ritorno
se… è in serbo per noi
un altro approdo…
àncora pietra d’esilio
confine isola su terra
ferma frontiera segnata
giocata parola di vento
muove scacchi su geografiche
carte strappate strade
luoghi di freddo inquietudini
(mai farai a meno
d’amare ) segni
ciechi taciturni
sassi dissepolte portano
dissonanze note
memorie dimenticanze
di transiti…
ritorna armonica polifonia
partitura sua sorgente
prima promana da tutte
cose case
tutte in passaggio in perenne
penombra ingiallisce

*

medi terranea mente
(monstri argonauti
ulissi ) diversa
dimensione pensiero
diverso di sogno
segno senso
a ricongiungersi naviga
procède vortice fievole
parola (carcere o
maschera ) idea
àncora di mondi sommersa
saetta ancòra
naviga a ricongiungersi
bruma sfumata di
trasparenze nuovi
rivolgimenti sempre cerca
(questo andare tornare )
raggiunge appena forse
sfiora l’enigma tagliente
cristallo in bocca l’oro
del mattino arcàno sogno
(Colchide d’oro o verde
umile Itaca?) lampo
cangiante di tempo di senso
segno su bianca baluginante
bava gelatinoso intreccio
segreto sinapsi dura
pia perla madre matrice
di flussi di note
divine sincronie sinfonie
primordiali metamorfosi
satura

 

*

in margini d’ombra stanno
tessere d’esistenza
al passaggio d’ogni marea
a largo ai porti ariosi ad arte
riannoda funi sommerse
d’inquietudini muove corpi
incerti fili confini
di luci ombre ripari
appresta per anime
sgomente
al passaggio d’ogni marea
servono fabbricanti di tende
templi cattedrali
di pietra (luoghi sono
di meditazione tempo
senza tempo) eterea
ascesi di pietraie
accese di possibile
perfetta origine sospesa
visione mistica colonne
(sedici braccia al cielo…)
al crinale del buio
contrario doppio possibile
modo ipogeo altro
volto sguardo luce
nera accesa (are
eretici roghi alti ere
mitiche metafisiche figure)
in masse monadi raccoglie
all’immanenza epicurea
sensibili al sangue
mischia mistiche
corporeità

Da Metropolis, Excogita Ed., 2008

Senza memoria di sé
senza passato questo
andare non sapendo…
(voce inscritta su pietra
metallo ) Strappi
rotture di tessuto connettivo
di pelle materia desiderio
marginalità adiacente
inganna dove guarda
gravitano luci voci parole
eppure…
affiora ci sono nodi gangli
un apparato di memoria
di pietra luoghi pronta
a spiare esitazioni di luce
incertezze d’infinite sovra
pposizioni sfumature di
colori variazioni suoni
alloga da un territorio
interiore dove chiaro
dove scuro buio profondo
un cielo blunotte allaga eppure…
molte sono voci
corpi metropolitani
invadono rotte fili
tessuti di terre sconosciute

 

da Millantanni, edizioni del verri, 2015

Vedrai …
batte ancora il cuore
in pancia alla terra
selvaggio fra il fugace
e l’eterno più pesanti
del chàos sempre vedrai
corpi nel tempo in carne
e ossa a margine sempre
resistono restano sul
confine feroce sulla soglia
fra armonia e orrore
al dolore inevitabile al
silenzio necessario dell’oblio
a perdersi resistono in deserti
della mente megalopoli di
dòlmen… (bucano i cieli )
dove pietre bestie animali
intelligenti e parassiti
pensanti tutti sovrasta
indolore l’errore del
vitello d’oro

*

[…]

 

[…]
sorprende sempre
questo esilio e ogni sua
filiazione immagini produce
produce parole nel tempo
del transito del silenzio
dove corpi si fanno parola
e sguardi muti solcano
il lastrico sconnesso di strade
toccano la soglia di corpi
contigui segnano un verbo
incarnato nel fiato nella fecondità
nella riga sottile che segna
il volto la pelle in anni di
memoria … impara la foresta
la strada il lampo nel pensiero
sinfonia sintonia istantanea
di orizzonti e infinito … impara
l’alveo immenso del dolore
e come serve capire ragionar
con cuore mani e lingue di foco
oh voi c’avete intelletto d’amore

[…]

*

 

Nota Biobibliografica
Nata a Palermo, formatasi per studi a Siracusa, è laureata in Scienze Sociali. Dal 1970 è a Milano. Vive fra Milano e la Liguria. Presente in riviste e antologie italiane e straniere, fra cui Poeti per Milano-una città in versi, a cura di A. Gaccione (viennepierre ed. 2002), Poesia a Comizio, a cura di M. Carlino e F. Muzzioli (ed. Empirìa 2008), etc.etc. Finalista in diversi Premi Letterari. Pubblicazioni: Altreacque (Book Ed. 1998); medi terraneo (1995 -1999), Primo Premio di pubblicazione per l’Inedito Il Porticciolo, Sestri Levante 2004 (Ibiskos Ed. 2005); Parole in Gioco (AA.VV. s.i.p. 2005); Metro Pólis (ExCogita Ed. 2008); Millantanni (edizioni del verri 2015). Il 30/4 e il Primo Maggio 1999 organizza a Milano, presso la Tenda Bianca del Comitato per la Pace, una due-giorni di Concerto di Poesia contro la Guerra; da questa iniziativa nasce l’antologia Poesia contro Guerra (Ed. PuntoRosso 2000, 2007 ampl.) con nota di Dario Fo. Nel marzo 2005 è invitata alla Biennale del Cinema per la Pace tenutasi alla Leopolda di Pisa. Curatrice della sezione di Poesia della Mostra Internazionale d’Arte: Per una “Carta” visiva dei diritti civili (catal. viennepierre, 2001) organizzata da “LIBERA, ass.ni nomi e numeri contro le mafie”. Condirettrice/redattrice per venti anni della rivista Il Segnale – percorsi di ricerca letteraria. Ha scritto su importanti Autori, fra cui – L. Bacchini, J. Insana, H.M. Enzensberger, B. Noёl, P. Oppezzo, F. Bandini, F. Leonetti, etc. È stata redattrice di Inoltre (JacaBook ed.), rivista di antropologia, società e cultura. Ha fatto parte, fin dalla sua prima formazione, con Pierluciano Guardigli, Roberto Carusi, Giusi Busceti, della Associazione ‘Casa della Poesia al Trotter’ di Milano. Nell’ottobre 2005 – con i poeti Andrea Rompianesi e Alberto Mori – ha fatto parte della delegazione che, su invito dell’Istituto Italiano di Cultura di Lisbona, ha rappresentato la Poesia Italiana nell’ambito della V Settimana della Cultura Italiana nel Mondo. In rappresentanza della redazione de ‘Il Segnale’, è con il poeta Lelio Scanavini al Festival franco- anglais de Poésie di Parigi, nel giugno 2007. Nel 2008 è al Centro Culturale Nazim Hikmet di Istanbul, invitata dal poeta turco Erkut Tokman a presentare il suo libro “medi terraneo”. Nel 2015 partecipa alla PennSound Italiana – Archivio della Poesia Italiana Contemporanea, del Dipartimento di Italianistica dell’Università della Pennsylvania, su invito della Prof. Jennifer Scappettone. È stata tradotta in francese, turco e lingua slava.

013# Chandra Livia Candiani: Le stelle nel deserto

di Alice Serrao

L’ombelico è la nostra ferita
la ferita di essere al mondo
senza spiegazione di cielo: schianto
del pane precipitato nel deserto.
Poi la sabbia.
Molto soli siamo.
E manchiamo.
Sempre manchiamo.
E’ il segno della legatura
per mancare. Sempre.
Così ruotiamo in cerca di luce
d’intero.
Dove ruotano i numeri
nel nero tra le stelle
sei raggiante.

(da C. L. Candiani, La domanda della sete 2016-2020, Einaudi 2020).

Un uomo è definito non solo da ciò che fa, ma soprattuto da ciò che gli manca. Perché ciò di cui sente la mancanza diviene motore del suo desiderio e lo orienta nella vita. Lo spiega bene Massimo Recalcati nel suo splendido saggio “La forza del desiderio” (Qiqajon Edizioni, 2014), nel quale analizza come il desiderio sia una forza incontrollabile che attraversa l’essere umano e lo spinge, soprattutto in adolescenza, a una rottura con ciò che ha rappresentato il confine d’orizzonte dell’infanzia. Realizzare un desiderio, una vocazione, equivale spesso a tradire e deludere le aspettative che altri hanno costruito su di noi. Per queste ragioni, Recalcati dice che “il dono più grande della genitorialità è, come Abramo, è affidare il figlio al deserto” che diviene metafora dell’esistenza.

Chandra Livia Candiani spiega lo stesso abbandono con un verso “schianto / del pane precipitato nel deserto” che ha in sé il richiamo a un nutrimento essenziale e a un luogo fortemente simbolico, con richiami anche biblici, perché il deserto è il luogo della solitudine e dell’erranza, della vita messa alla prova. Ma l’attraversamento del deserto, ce lo insegna la lettura escatologica delle Sacre Scritture, è figura anche della liberazione.

Dunque l’uomo, quando nasce, manca inevitabilmente di qualcosa, e porta nel corpo la ferita del taglio ombelicale a memento di un’altra ferita, quella ontologica, che gli ricorda d’essere sempre “in cerca di luce / d’intero”. Separato come ci racconta anche Platone nel Simposio, eternamente alla ricerca di un amore che sappia restituirlo a una pace pre-natale. “Soli” “manchiamo” ribadisce la poetessa.

Nella raccolta “Il corpo battello” ogni parte del corpo diventa protagonista di una riflessione condotta tramite legami sintattici sorprendenti e a tratti spiazzanti, con un uso delle parole mai scontato e nuovo negli accostamenti semantici. In questa poesia è l’ombelico la traccia concreta da cui parte il discorso poetico, che, nei versi conclusivi, sembra suggerire che “tra le stelle” nel nero del cielo “senza spiegazione” (l’etimologia della parola desiderio ci insegna che de-siderus significa proprio “lontananza dalla propria stella”) un tu “raggiante” orienti il cammino.

In ricordo di Giampiero Neri

di Redazione Casa della Poesia al Trotter

In occasione della recente scomparsa, i soci della Casa della Poesia al Trotter ricordano con affetto il loro socio fondatore e presidente onorario, l’amico poeta Giampiero Neri.

Così lo ricorda la nostra Presidente Giusi Busceti:

“Socio Fondatore non è abbastanza, ti vogliamo come Presidente Onorario, Giampiero”… Così, dopo la Giornata Mondiale della poesia 2018, gli dicevo al telefono. “Ah beh, grazie, ma un Presidente che sarà troppo assente per motivi anagrafici… Purchè non ci sia bisogno di carte da firmare!”, rispose con la consueta allegria: Giampiero Neri, uno dei “padri” della poesia di questo Paese, il più entusiasta tra i primi fondatori della nostra associazione, pochi mesi dopo l’esordio al Teatrino del Trotter del 21 marzo 2004. Ce la mise invece tutta, con taxi dell’ultimo istante dal suo Piazzale Libia, per intervenire ogni volta che se la sentiva. Il Signore di Piazzale Libia, come lo chiamava mio padre, così resta nei miei versi e nella mia anima, che sono certa lui ritenesse immortale. La Casa della Poesia del parco Trotter rimane a testimoniare della statura della sua poesia e della sua persona. Senza bisogno di carte da firmare.

Le vite degli altri

di Alessandra Paganardi

(Germania, 2006)
Durata: 137 minuti
Regia: Florian Henckel von Donnersmarck
Attori: Martina Gedeck, Ulrich Mühe, Sebastian Koch, Ulrich Tukur, Thomas Thieme, Hans-Uwe Bauer
Sceneggiatura: Florian Henckel von Donnersmarck
Fotografia: Hagen Bogdanski
 Montaggio: Patricia Rommel
 Musiche: Gabriel Yared, Stéphane Moucha

La libertà, la politica, la hybris e la pietas, ma anche  la disciplina, la responsabilità il rapporto con il Potere che corrompe, eppure non lo fa mai nostro malgrado: sono questi i temi portanti di un film che soltanto per caso e superficialmente può essere categorizzato come “spionistico”. Nella DDR degli anni Ottanta (sì, proprio la stessa dello splendido Il concerto di Radu Mihăileanu), che fatalmente declina verso il crollo del muro e le tentazioni del capitalismo, il capitano Gerd Wiesler (Ulrich Mühe) serve con grigia diligenza la Stasi. Il suo compito è spiare e interrogare i cittadini sospetti e anche insegnare ai futuri funzionari, con metodo e lucidità quasi eichmenniani, come fare (la scena metacinematografica della lezione iniziale è un vero capolavoro di cinema nel cinema, già sottilmente allusivo dell’elemento voyeuristico, che sarà la cifra dell’intero film). Le scene di vita quotidiana, i dialoghi, la stessa preparazione ed esecuzione dello spettacolo teatrale, di cui i protagonisti sono rispettivamente drammaturgo e prima attrice, mostrano la pesante normalità di una popolazione ormai avvezza a questo tipo di regime. Le loro vite, ormai si sa, sono (in senso rovesciato rispetto a quello volutamente e felicemente ambiguo del titolo) vite degli altri : non più proprie, ma in possesso perenne dei militari, che ne conoscono ogni minimo particolare, all’occorrenza anche i più intimi e imbarazzanti.

Il capitano Wiesler riceve dalle autorità una missione speciale: spiare lo scrittore Dreyman (Sebastian Koch) compagno dell’attrice Christa-Maria Sieland (Martina Gedeck),  della quale il ministro della Cultura si è incapricciato, allo scopo di incastrarlo ed eliminarlo. Per quanto il film sia famoso e la vicenda probabilmente nota ai molti che possono averlo già visto (ricordiamoci che vinse un meritatissimo Oscar per il migliore film straniero) non andrò naturalmente oltre nel resoconto.  A chi lo rivede spetta ora il compito della rilettura: imporre la resa dei conti a un’opera d’arte che è recente sia nell’ambientazione sia nella realizzazione, e proprio per questo si trova a serio rischio di scadenza, dopo ormai tre lustri e tanti ulteriori cambiamenti intervenuti. Ma ci rendiamo subito conto che Le vite degli altri, come tutti i grandi film, di scadenza non sembra proprio soffrire: per molti aspetti pare scritto proprio ieri, in quest’ epoca di apparente libertà totale, “liquida”, senza padroni né vincoli. Anzi, di sinistramente attuale c’è la presenza nelle nostre vite della tecnologia: eppure il livello degli strumenti da “grande fratello” del regime sovietico nel 1984 (anno in cui, certo non casualmente, è ambientato il film) è così primitivo da far sorridere, soprattutto se paragonato alle inafferrabili misure di controllo cui ci hanno ormai abituato i nostri palmari e smartphone. È assai probabile che l’attuale scenario, ormai sempre più singaporiano, fosse presente già diciassette anni fa all’intuizione profetica del regista. Si può pensare che Donnesmarck ne abbia fatto una chiave consapevole per orientare lo sguardo su un passato ancora recente, ma ormai chiuso e definito nelle sue coordinate storiche: dunque esplorabile con obiettività documentaria e  ̶  proprio per questo  ̶  suscettibile di un geniale scarto visuale, della messa a fuoco distopica verso un ancor più inquietante futuro.

È un film particolarmente difficile da seguire per la sceneggiatura raffinata e rapida, per la voluta opacità delle riprese, per la complessità non lineare dell’intreccio e per i frequenti colpi di scena, fra i quali spicca il meno probabile di tutti: la possibilità che le persone si trasformino spiritualmente, esprimano una parte buona di sé già presente e ben nascosta, oppure la facciano evolvere a carissimo prezzo, con un lavoro interiore di cui non si conosceranno mai le vere ragioni. Eppure non c’è alcun buonismo, nessuna concessione a un’improbabile retorica del progresso morale o del sacrificio: meno che mai all’epica, sia essa quotidiana oppure eroica. Persino le evoluzioni, le involuzioni e i drammi psicologici (come quello dell’amico regista dissidente, emarginato e infine suicida) sono tratteggiati con pudore e senza parole superflue. Sono piuttosto gli elementi paraverbali (sguardi, posture, gesti, affanni e rincorse) a denunciare sottotraccia la vicenda che va svolgendosi e ad accompagnare lo spettatore alla risoluzione, in uno scenario sempre più vicino temporalmente a quello dell’uscita del film. Lo scabro colloquio finale fra scrittore ed ex ministro ̶ in una Germania finalmente unificata, ma non per questo libera e felice ̶ è una lezione di dignità e un capolavoro di realismo storico-psicologico, anch’esso applicabile al presente e sempre più al futuro, che sembra compendiarsi nella lapidaria frase finale: «E gente come Lei ha governato questo paese!» .

Le vite degli altri è visibile gratuitamente cliccando 

https://www.raiplay.it/programmi/levitedeglialtri

La frase celebre del film è: «Ma come fa chi ha ascoltato questa musica, ma veramente ascoltato, a rimanere cattivo? ».

012#Roberto Mussapi: Le voci nella segreteria

di Alice Serrao

© Foto di Dino Ignani

Le voci che parlano all’una di notte

Le voci che parlano all’una di notte
alla segreteria telefonica,
quella un po’ alcolica dell’amico che chiama da una festa,
quella dall’accento tedesco che evoca campi,
quella di tanti che non conosci,
poi la madre, in una città lontana su un altopiano,
mentre tu sei distante e percepisci la notte
e la commistione delle voci riudite
e di quelle che nel tempo diurno ti parlarono,
al telefono, o solo dentro di te, i persi,
i tuoi morti o le voci viventi che ti svegliarono
dal sonno delle basse pressioni, dal sottovivere,
che ti chiamò dall’ombra sollevandoti nella luce e nel respiro,
tutti presenti e vocanti nel ricordo
di un tasto appena spento.
Non solo la loro voce, la voce impressa,
le altre, quelle che ti fecero diurno e perenne
mentre sciamano le automobili nel silenzio,
e i fari accesi custodiscono il buio,
la radio, l’abitacolo, l’altra voce.

(da R. Mussapi, La polvere e il fuoco, Mondadori 1997)

Nella segreteria telefonica ci sono dei messaggi. Ci sono le voci di quelli che hanno parlato con me quando non eravamo in casa. C’è la voce di mia madre: chiede notizie, si assicura che stia bene, che abbia mangiato. Dice: baci. Dice: richiama. Dopo c’è la voce registrata di una centralinista da un Call Center, propone promozioni vantaggiose per pagare meno la linea fissa, sciorina tariffe nell’italiano che reca l’inflessione dell’est. La sua è una voce registrata che parla dopo il segnale acustico. Un dialogo tra registratori. Una conversazione senza scambio. Un dialogo che in realtà non sta avvenendo: sono parole in differita. “Non sono in casa, lasciate un messaggio”. La più straniera, tra tutte le voci ascoltate, resta comunque la mia.

– “Clara, mi senti, Clara?” “Si” fece lei con un tenero bisbiglio “ti sento….Ma sei sicuro che gli altri se ne siano tutti andati?”. “Tutti meno uno” rispose lui bonario “meno uno che finora è stato tutto il tempo ad ascoltare ma non ha mai aperto la bocca.”.
Ero io. Col batticuore, misi giù immediatamente la cornetta. –

(D. Buzzati, Sciopero dei telefoni)

Nel racconto di Buzzati le voci si intrecciano e le conversazioni corrono lungo i fili telefonici, sovrapponendosi; ma, a differenza di quanto accade in questo testo di Mussapi, dialogano in diretta. Nella poesia, invece, c’è l’io del poeta che resta in ascolto: le voci che si susseguono nella segreteria dicono parole passate, ma conservano il carattere di permanenza. Sono sempre lì, in agguato “nel ricordo /di un tasto appena spento”. Resta “la voce impressa” dei vivi, quelli che “nel tempo diurno ti parlarono”, ma anche quella dei morti, di chi non c’è più, e pure continua a chiamare “dall’ombra” “o solo dentro di te”.

“Mentre tu sei distante” una commistione di voci parla con la segreteria: è una distanza fisica e metafisica, perché lo spazio e il tempo, collegati, subiscono la medesima distorsione. La voce dei vivi, “quella un po’ alcolica dell’amico che chiama da una festa” ci rimanda, coi suoi sottofondi, a un luogo in cui evidentemente non siamo e non siamo stati. La voce viaggia nell’aria, resta sospesa sotto forma di onde, e poi si ricompone nella sua familiarità umana dentro il nostro orecchio, altrove rispetto al luogo in cui è nata. La voce dei morti, invece, resta imprigionata nella registrazione, gira a nastro, ci desta all’improvviso “dal sonno […], dal sottovivere”. Evoca altro. Alla fine di tutti i messaggi registrati ce n’è uno, nella mia segreteria, che mi invita eternamente a pranzo. E’ per questo che ho scelto questa poesia.

Per il mistero della voce, di ciò che attraverso la realtà ci chiama dall’interno, quello che Buzzati chiama “l’enigma” e Mussapi “l’altra voce”.

La regola del silenzio

di Alessandro Magherini

USA, 2012
Diretto da Robert Redford 
Soggetto dall’omonimo romanzo di Neil Gordon
Sceneggiatura di Lem Dobbs 
Fotografia di Luca Bigazzi
Montaggio di Mark Day
Musiche di Cliff Martinez 
Con Robert Redford, Shia LaBeouf, Susan Sarandon, Julie 
Christie, Jackie Evancho, Nick Nolte. 
Durata: 125 min.

Un passaggio di Subterranean Homesick Blues di Bob Dylan dice: “You don’t need a weatherman to know which way the wind blows” (https://www.youtube.com/watch?v=MGxjIBEZvx0), non hai bisogno di un meteorologo per sapere da che parte soffia il vento. È a quell’affermazione che si ispirarono nel 1969 i fondatori del gruppo Weather Underground Organization (WUO), staccatosi dall’SDS (Students for a Democratic Society) – che aveva guidato le lotte nelle università americane fin dal 1964 – allo scopo di combattere “una guerra non di dominio ma per la fine di ogni dominio, non di distruzione ma di liberazione e di abolizione di ogni catena che limita la libertà umana” (Weathermen: i fuorilegge d’America, a cura di Harold Jacobs, Feltrinelli, Milano, 1973, trad. di S. Sarti, p. 123-24).

È questa la premessa storica su cui si basa La regola del silenzio, girato nel 2012 dall’allora settantacinquenne Robert Redford: nel 1980, quando il gruppo è ormai sul punto di essere inghiottito dalla repressione poliziesca e dal riflusso, alcuni weathermen compiono una rapina in banca nel Michigan, nel corso della quale viene uccisa una guardia giurata. Trent’anni più tardi, un avvocato vedovo e padre di una bambina, che vive ad Albany sotto la falsa identità di Jim Grant, finisce nel mirino dell’FBI in seguito alla confessione di Sharon Solarz, un’ex appartenente alla WUO spinta a consegnarsi alla polizia dai rimorsi di coscienza.

Al caso si interessa appassionatamente anche un giovane cronista di Albany, Ben Shepard, che si rivela anche più abile e perspicace dei poliziotti.

La vicenda – sebbene un po’ confusa negli snodi – è una coinvolgente caccia all’uomo nella quale Jim, il cui vero nome è Nick Sloan, riuscendo a tenere in scacco gli agenti, fa riemergere dalle nebbie della storia numerosi ex membri del gruppo armato, quasi tutti assai bene inseriti nel contesto sociale. Pur essendo un film d’azione, La regola del silenzio ha il punto di forza nei dialoghi e nelle storie che affiorano dai suoi attempati personaggi, cui fa da contraltare il vivace Ben, capace di arrivare sempre prima dei cops

I volti, poi, sono quelli di un cinema agé, fatto più di facce che di effetti e anche questo è un messaggio che ci arriva da sotto le rughe dello stesso Redford, di Nick Nolte e degli altri interpreti, soprattutto le sempre splendide Susan Sarandon e Julie Christie.

Il film è visibile gratuitamente su Raiplay:             

https://www.raiplay.it/video/2017/01/La-regola-del-silenzio-08297b37-afa9-43c6-8baa-001786b53d9c.html

La frase celebre è:

I segreti sono pericolosi, Ben, credi di volerli conoscere, ma se mai ne hai custodito uno avrai chiaro che quando arrivi a scoprire qualcosa che riguarda un’altra persona, scopri anche qualcosa di te stesso.

Quello che non so di lei

di ALESSANDRA PAGANARDI

(Francia-Belgio, 2017)
Durata: 110 min
Regia: Roman Polanski
Attori: Emmanuelle Seigner, Eva Green, Vincent Perez, Dominique Pinon, Brigitte Roüan, Noémie Lvovsky, Josée Dayan, Damien Bonnard, Saadia Bentaieb
Sceneggiatura: Roman Polanski, Olivier Assayas
Fotografia: Pawel Edelman
Montaggio: Margot Meynier
Musiche: Alexandre Desplat

Il doppio, l’ossessione, lo scambio tra finzione e realtà, i tarli psicologici che si fanno indistinguibili da vere e proprie possessioni demoniache: questi e altri temi di Roman Polanski, già noti in capolavori storici come Rosemary’s baby L’inquilino del terzo piano (ma a voler guardare in tutti i suoi film), tornano in questo inquietante masterpiece della tarda maturità. Delphine , interpretata da Emmanuelle Seigner, è autrice di un bestseller autobiografico che, dopo averla duramente provata emotivamente, le costa una vicenda di stalking e una buia fase di blocco creativo. È a questo punto che la protagonista incontra Lei, una bellissima donna stranamente somigliante a una versione più giovane e più disinvolta di se stessa, che prende possesso della sua personalità, della sua casa e della sua vita.

Un film bello e inquietante, passibile di interpretazioni aperte e controverse. Come in Misery non deve morire, tratto dal famoso romanzo di Stephen King, il protagonista è uno scrittore e il comprimario ne diviene doppio inquietante e manipolatore, fino a sovrapporvisi e a fagocitarlo. Un’altra analogia fra le due opere è l’ipercura distruttiva, che tuttavia in Polanski, a differenza che in Reiner. non si risolve mai in dolo evidente. Realtà e ossessione, ambiguità e disvelamento convivono qui senza mai elidersi. Delphine è una donna inquieta, incapace al fondo di essere felice (anche nella vita privata) e di godere pienamente del meritato successo; Elle ne è la controparte vitale. Il rispecchiamento patologico fra le due si fa manifesto in dialoghi memorabili (come quello sull’amica immaginaria, in cui Elle descrive una sorta di figura-ponte fra le due donne e comincia a delineare quella che sarà la soluzione finale). Ma Elle è anche la controparte sadica di Delphine, che trova perfetto riscontro e completamento nel lato masochistico della scrittrice frustrata, depressa e incapace di elaborare attraverso la creatività i propri drammatici vissuti famigliari.

Fra citazioni raffinate (una per tutte, la più evidente, da Hitchock nella Finestra sul cortile) ed espressioni sempre più enigmatiche del volto di Eva Green/Lei, la rappresentazione di questo thriller psicologico vola verso una conclusione sempre più concitata. Anche se le interpretazioni possibili sono più di una, a venire in aiuto è sicuramente il titolo: “Lei”, nome lasciato volutamente in sospeso, è anche il doppio della protagonista, con gli stessi occhi verdi, i capelli rossi e una vocazione diversamente espressa per la scrittura. La mancanza di ispirazione che affligge la protagonista è il trigger che crea nella sua mente turbata un alter-ego più risolto, più adatto all’esistenza e forse anche al mestiere di scrittrice: un’amica immaginaria, appunto. Accogliendola nella sua vita, e vedendola altrettanto improvvisamente sparire, Delphine riuscirà finalmente a scrivere il secondo libro, ma anche a raggiungere una sorta di sintesi esistenziale con se stessa. Alla fine lo spettatore comprende che non ha molta importanza stabilire se  Elle sia una pura e semplice creazione della mente di Delphine, se sia un personaggio realmente esistente nella finzione affabulatoria oppure sia, al limite, la rappresentazione stessa, puramente letteraria e intradiegetica, del libro futuro. 

Polanski riesce comunque magistralmente a possedere l’anima del pubblico fino all’ultimo respiro, con una sceneggiatura perturbante e in tutti i sensi noir. Il finale della pellicola suggerisce, nel caso più felice, una sorta di conclusione di un processo analitico: ma sappiamo bene che l’analisi è interminabile e il particolare decisivo dell’ultima scena, che naturalmente non svelo qui, lascia aperta un’ulteriore ipotesi. Possiamo cioè immaginare che, come un disco rotto, la vicenda ricominci in una sorta di loop ossessivo e che possa esistere un altro film identico a questo, un altro viaggio irrisolto nell’ anima: forse l’arte di per sé non serve affatto a trovare la pace interiore. Occorre un altro passaggio di maturazione. Qui lo spettatore, dominato dal regista fino all’ultimo momento, è veramente lasciato libero di riscrivere il film da capo e di trovare la propria irripetibile risposta.

Quello che non so di lei è visibile gratuitamente cliccando

https://www.raiplay.it/video/2020/08/Quello-che-non-so-di-lei-79755943-449d-463c-b5c9-bcef6e735308.html

La frase celebre del film è: «Tutti gli scrittori rubano fatti veri, tu ti rifiuti di scrivere il tuo libro nascosto».

Valeria Rossella. Al crocevia dei versi

di Luigi CANNILLO

Valeria Rossella

Le poesie di Valeria Rossella sono costruite per dinamiche e snodi inconsueti. Il tempo sembra un arbitro implacabile ma le lancette del suo orologio scattano e ruotano nei due sensi opposti riservando sorprese già tra le pieghe del primo testo, che oscilla tra esperienza contemporanea (o comunque narrata al presente) e proiezione futura, fino al sigillo del verso finale: “e si congiungeranno l’ombra e la sostanza”. Lo slittamento dei piani temporali verso la sintesi poetica si verifica anche nei testi successivi, scelti dall’autrice stessa – per esempio nei secoli che passano da Simone Martini a Magritte con la discesa degli angeli, nel movimento delle nuvole in fuga e nella stessa dimensione spaziale che riguarda l’universo “nel cosmo che all’infinito si espande e si dirada.” Il tempo poi, in relazione a tale dimensione cosmica “non sta su un piano cartesiano”; scorre, e noi con lui, in un sistema fluido di presenze/assenze per il quale le figure dalla “terra degli invisibili” ritornano immanenti, emergendo “dal permafrost degli anni”. Riprendono a respirare anche nella suggestione dei versi, come il personaggio di Gianna nella poesia a lei dedicata.
Anche lo spazio quindi è coinvolto e complice di tali scarti dinamici, con gli scenari che fissano un ambito terrestre o celeste “(il cielo degli spiriti incostanti)”. Fanno da ambiente, da quinta mobile, un bar di Camogli, un’aula di biologia o Santa Maria della Scala a Siena, la stessa distanza dei “cinque passi”: “Il volto pallido acceso dalla sciarpa viola/ si avvicina di cinque passi ma/ ricordandomi che il tempo ci ha disposto/ ad altezze diverse dentro il suo spartito/ di cinque passi si allontana se lo seguo.” Anche grazie a questa fluidità il percorso di attraversamento riesce a ricongiungere i momenti terminali della morte e delle lapidi con il loro presagio, l’ evocazione con l’anteriorità. Spesso è il movimento della danza, concentrato di moto e ritmo all’interno di uno spazio circoscritto, a fare irruzione sulla scena, “moto e quiete […] sulle pareti delle tombe a Tarquinia”; oppure la farandola dei gusci degli insetti estinti con i ragazzi del giorno d’oggi o il minuetto delle triglie nel magazzino del pesce.
All’incrocio tra questi piani spaziotemporali si svolge il dialogo con le presenze/assenze, orchestrato nell’intreccio delle diverse misure dei versi e nelle loro inarcature. Alla suggestione operata dalla poesia contribuisce in modo essenziale l’evocazione delle parole pronunciate che si sono deposte e sedimentate, con la citazione e l’inserimento del discorso diretto, immediato e potente come in certi versi: “Temevo il freddo ma fu il calore a togliermi la vita”. E l’autrice è in ascolto, replica con riflessioni in dialogo con quei messaggi estremi e testamentari, arriva perfino a raccogliere il semplice suono della voce di chi è assente, proveniente da un lontano gennaio. Tutti gli elementi contribuiscono ad accogliere e modulare come a un animato crocevia le provenienze, i passaggi, i destini. In un flusso testuale dove nelle diverse tessere si possono trovare, insieme a forme di narrazione, l’uso del discorso diretto, o sintesi fulminee ed enigmatiche, “Cocito, lastra di pianto, antimateria”, insieme a immagini inedite, come quella degli angeli che scendono in bombetta nera a timbrare la cartolina. O anche chiuse surreali come “[…] il grido/ che annuncia l’alba pare di un uccello/ invece è il tempo che piange ininterrotto”. Si inseriscono anche spunti autoriflessivi, se non di monologo interiore: “Forza, coraggio, su, tutto finisce”. Una giravolta effettua una sorta di inversione a U rispetto a un possibile approdo nostalgico elegiaco all’arrivo degli amici da giovani dalla profondità del tempo: “[…] e mentre/ la luce tra le foglie dà lezione di ricamo, punto erba/ punto ombra punto croce/ ridiamo e cantiamo, come fosse una festa.”
Così l’ombra e la sostanza si congiungono senza forzature grazie allo spaziotempo che ne può assecondare il contatto, e grazie alla poesia che per sua natura accosta e alterna forma e materia, e, con Valeria Rossella, sensibilità e raffinata sapienza autoriale.

da “La città di Kitež”, Aragno Ed., 2012

 

Becchime per i passeri, accanto a quei santi e quei soldati,
ai pellegrini che trascinano piedi malati per gli affreschi
in Santa Maria della Scala mi ripeti
Forse per l’ultima volta vedo Siena – e l’ultima fu,
fino a che identici
saranno moto e quiete come nelle danze
sulle pareti delle tombe a Tarquinia,
la porta sommersa girerà,
Cocito, lastra di pianto, antimateria
e si congiungeranno l’ombra e la sostanza

 

I cieli dei pittori

Simone Martini li vestì di scaglie d’oro
per rendere temperante la luce terribile degli Angeli
finché le Schiere in bombetta nera
non scesero a timbrare la cartolina
nel rigido carillon di un quadro di Magritte. Con
un gemito uscirono dalla cornice, ed ora
solo la forza d’inerzia ci governa, e il cielo
non ci sovrasta più del sottosuolo.
Le nuvole comparvero nel Rinascimento, e mai non ci abbandona
l’ossessionante spettacolo della loro fuga, volubili
spume anoressiche o retorici drappi,
senza futuro responsabilità o memoria
nel cosmo che all’infinito si espande e si dirada.

***

Da “Quello che vedo”, Interlinea, 2021

 

Aubade

Il passo sciancato del vento tra le foglie
è simile a quello del mio amore è simile
alla morta farandola che i gusci degli insetti
danzano con le immagini dei ragazzi col piercing e l’aritmia cardiaca
negli specchi dei bar che chiudono alle quattro del mattino
quando tramontano gli occhi imperturbati della notte
gelidi sfaccettati occhi di mosca.
È ottobre:
il vecchio dio cieco ci vede come ombre.
Qualcuno smonta il turno con le ambulanze e i camion
della nettezza urbana, e il grido
che annuncia l’alba pare di un uccello
invece è il tempo che piange ininterrotto

 

Le piccole stazioni hanno due binari
arrivi o partenze chi può dirlo, il tempo,
il vecchio angelo seduto
su una pietra a Staglieno, il tempo
non sta su un piano cartesiano
Per questo ora mi dici, qui, nel tuo cappotto fuori taglia,
nella sala d’aspetto della stazione di Verbania, mentre
due ragazzi sonnecchiano, la testa sullo zaino,
Temevo il freddo ma fu il calore a togliermi la vita
qui me lo dici ma senza partire né arrivare, solo
scorrendo fuori dallo spazio, oltre quest’erba fra i binari
diafana, le nubi spinte dal lago verso
le cave di marmo palissandro, scorrendo

solo nel tempo come fa la musica

 

Prendiamo un caffè? sento la tua voce
arrivare rugginosa di salsedine
in un bar a Camogli, e sono
di nuovo nel gennaio del novantasei.
Un vento cattivo scalcia un mucchietto d’immondizia
nel vicolo del porto, mentre le triglie danzano
nel magazzino del pesce il loro spettrale minuetto
e si fa beffe di me il primo lampo,
quello che ammonisce.
Forza, coraggio, su, tutto finisce
pioverà presto, sui gatti e sulle apparizioni
e non sarà più possibile distinguere acqua da acqua.
Metterò in tasca una pietruzza
raccolta sulla spiaggia, e la porterò sulla tua lapide,
o immagine graffiata di raucedine.

 

Gianna

Perché te ne sei andata mi chiede Gianna sollevandosi
nelle particole di polvere fra i vasi di mosche
farfalle e scarabei immersi nell’alcol e nella formalina.
Luce bassa di feritoia, terzo piano, sento l’odore della canfora
nell’aula di biologia dove mi parli del tuo amore per un medico,
sgraziata e miope, figlia di un postino,
prima della tua morte per monossido.
E non pensavo che ti avrei steso qui, sopra questo vetrino,
chiedendoti perdono per aver lasciato passare così tanto tempo
prima di pronunciare il tuo nome e il tuo destino.

 

Permafrost

Vengono a trovarmi gli amici, ma da giovani,
emergono dal permafrost degli anni,
sgranati nel temporaneo disgelo, artici rivoli canterini
in un giro di sol, spiriti aspri e spiriti dolci nel compito di greco.
Sono soltanto
un poco più biondi, vitrei e veloci. Pare
vogliano tornare all’inizio, alla sorgente,
per chiudere la vena.
Così estraggo gli oggetti-talismano, il Rocci, lo spartito
dell’Amore è blu, e mentre
la luce tra le foglie dà lezioni di ricamo, punto erba
punto ombra punto croce
ridiamo e cantiamo, come fosse una festa.

***

 

Cinque passi

Questa è la distanza prescritta: cinque passi.
Mentre do acqua ai gelsomini che protendono
giovani foglie verso la luce e la fine
il sole avanza verso il polo invisibile, il nadir.
Terra degli invisibili, rispondi! Rispondi,
amore mio scaleno.
Non perdiamoci di vista dice
oscillando nel suo cielo di cristalli e acque
(il cielo degli spiriti incostanti)
il volto pallido acceso dalla sciarpa viola
si avvicina di cinque passi ma
ricordandomi che il tempo ci ha disposto
ad altezze diverse dentro il suo spartito
di cinque passi si allontana se lo seguo.
Chiave di sol, chiave di do.
Cinque passi è la distanza prescritta, cinque passi.

 

(inedito)

Nota Biobibliografica
Valeria Rossella è nata nel 1953 a Torino, dove è tornata a vivere dopo un lungo soggiorno romano. Tra le sue raccolte di poesie: L’anima del violino (Galleria Pegaso Editrice, Forte dei Marmi 1996), Il luminaio (Crocetti 2003), La città di Kitež (Aragno 2012), Quello che vedo (Interlinea 2021). E’ anche traduttrice dal polacco, ha curato tra l’altro la versione di un’ampia scelta dell’epistolario chopiniano (Il Quadrante, Torino 1986), e di Czesław Miłosz, premio Nobel 1980, un’antologia di poesie (La fodera del mondo, Fondazione Piazzolla, Roma 1996) e il Trattato poetico (Adelphi, Milano 2011).

Antonia

di Alessandro MAGHERINI

Italia, 2015
Diretto da Ferdinando Cito Filomarino
Soggetto: Ferdinando Cito Filomarino, Carlo Salsa 
Sceneggiatura: Ferdinando Cito Filomarino, Carlo Salsa
Montaggio: Walter Fasano
Prodotto da Luca Guadagnino e Marco Morabito
Con Linda Caridi, Federica Fracassi, Filippo Dini, Alessio Praticò, Maurizio Fanin, Luca Lo Monaco
Durata: 96’

Terzo film sulla figura della poetessa Antonia Pozzi, è il primo con una struttura narrativa tradizionale. Gli altri due – Poesia che mi guardi di Marina Spada (2009) e Il cielo in me(2014) di Sabrina Bonaiti e Marco Ongania – potrebbero essere definiti dei “docufilm”. Qui, invece, troviamo un racconto biografico che si dipana lineare secondo classici stilemi di fiction.

Antonia Pozzi, autrice sconosciuta in vita, fu introdotta al pubblico della poesia da Eugenio Montale e dall’amico Vittorio Sereni. Purtroppo la sua vita era stata da tempo stroncata da una massiccia dose di barbiturici assunta in un freddo giorno di dicembre in un prato nei pressi dell’abbazia di Chiaravalle, a sud di Milano.

In Antonia, il personaggio è interpretato da Linda Caridi che, quando fu girato il film, aveva circa la stessa età della Pozzi ai tempi della sua morte. Un’età critica per gli artisti se pensiamo che alla poetessa mancavano poco più di due mesi per raggiungere i fatidici 27 anni, quelli che pochi decenni più tardi avrebbero rapito B. Jones, J. Hendrix, J. Joplin, J. Morrison, J.M. Basquiat, K. Cobain.

Questo riferimento ad artisti della cultura rock non è casuale, Antonia fu, in un certo senso, precorritrice di quella passione anticonvenzionale e antiborghese che avrebbe caratterizzato gli anni del dopoguerra, dall’epopea beat in avanti. Nata con qualche decennio d’anticipo, non trovò intorno a sé un milieu in grado di comprenderla: troppo “ingessata”, anche se prestigiosa, l’intellighenzia universitaria in cui era inserita, a partire dal professore Antonio Banfi che lesse alcune delle sue poesie ma non ne apprezzò l’effusione lirica e il soggettivismo.

Tutto questo e altro ancora ci fa leggere il bel film di Ferdinando Cito Filomarino, di cui si nota la vicinanza stilistica al più celebre amico Luca Guadagnino (peraltro produttore del film), di cui riprende atmosfere già viste in Io sono l’amore (2009), forse il capolavoro del cineasta palermitano.

In una Milano molto riconoscibile, a Pasturo (in Valsassina), sulle scoscese pareti delle montagne lecchesi ritroviamo, così, Antonia con le sue poesie, il suo diario e i personaggi della sua vita, dal padre, il severo avvocato fascista Roberto Pozzi, ai suoi amori – Antonio Maria Cervi, Remo Cantoni, Dino Formaggio – con, forse, degli elementi di fantasia, in quanto non riconosciuti dai più attenti biografi, come certe effusioni saffiche en passant e un amplesso campestre con Remo, che però ravvivano l’atmosfera e danno modernità al personaggio. 

Il film è visibile gratuitamente a questo link:

https://www.raiplay.it/video/2018/02/Antonia-98827188-30f5-4969-9431-408746467fdf.html

La frase celebre è:

Anch’io non ho radici

che leghino la mia

vita – alla terra –

Dalla poesia Ninfee di Antonia Pozzi.

#011.Tiziana Cera Rosco – il Corpo e la forma del testo

di Alice SERRAO

In seguito ad un profondo sonno

In seguito ad un ribaltamento

Come al termine di un isolamento delle immunità

Chiedimi se durante l’ultima malattia

Avevo toccato una parete rovente

L’accesso ad una continua produzione di mondi

Non è come la luce nell’acqua l’infanzia

Un’elettricità risucchia velocemente il nettare dai fiori

E i giorni dei cedimenti reimpastano la loro avarìa

Tentano di riempire la frase che non si è più rivelata

Neanche la sera del nostro reale disinganno

Chiedimi se quella poesia a cui stavo accedendo

Si trova ora in lutto in tutto l’universo 

E conduce la nostra decifrabilità attraverso un disordine mentale

Un’attività di trasmissione a diverse frequenze

Che distorce l’onda del chiedimi: “Tiziana dove oscilli?”

Quali parole userò più con i miei figli

Se il mio allontanamento devo lasciarlo andare

Nello strano sottilissimo di una conversazione apparente

Mentre pneumaticamente gli occhi vibrano un bianco folgorante

Un mutismo sprigionato dalle ossa delle sante

Usa le parole che avevo forgiato per te, i fatti decisivi

Allèati col mio destino come un Medioevo

Fammi vedere la forma umana del mio testo

Parlala con me in questo isolamento dalle immunità

I cristallini, i vitrei, i fuochi

Ficcami nelle mani gli occhi con cui ti ho illuminato

Perché se pianto un chiodo oggi, se lo pianto

Se decido di battere metallo su metallo

Gli stipiti delle ciglia grondano tutta una diagnosi del mondo.

Ho toccato una parete rovente.

Non è come la luce nell’acqua l’infanzia.

Una trasmissione a diverse frequenze ci conduce 

Attraverso un disordine mentale

In tutto l’universo c’è una poesia da cui sono decifrabile – lo so –

L’ho toccata, era rovente,

Una Malattia Massima a cui dovevo arrivare da bambina

In seguito ad un profondo sonno, un Disordine

Eccola

Prenditi cura dei miei figli, tocca loro gli occhi

Chiedimi solo se devo lasciarla andare

Se è questo il fatto decisivo

Se lo spettro che sono oggi tra i vivi e i morti

È la magra forma umana del mio testo.

Chiedimelo.

Fammi dire No.

(T. Cera Rosco, Corpo finale, LietoColle, “Gialla Oro”, 2019)

La poesia di Tiziana Cera Rosco non è una poesia di facile accesso; essa richiede tempo per immergersi dentro il linguaggio, lasciando che questo ci conduca in una “continua produzione di mondi” e, alla fine, dopo averci fatto attraversare “a diverse frequenze” “un disordine mentale”, ci conduce alla soglia di un disinganno o di una decifrazione.

Una trasmissione a diverse frequenze ci conduce

Attraverso un disordine mentale

In tutto l’universo c’è una poesia da cui sono decifrabile – lo so

Il testo è, a tutti gli effetti, un corpo poetico, la trascrizione di un’esperienza totale: la poesia traduce lo spostamento elettrico, la fisica dei neutrini, la metafisica del divino, fissa su carta la “diagnosi del mondo”, la forma impressa dalla vita sulle cose e dalle cose su di noi, dopo l’incontro. Dopo un “fatto decisivo” che lascia sovraesposti, perché il sentire dell’artista è “un’attività di trasmissione a diverse frequenze” che provoca smottamento, ustione. “Fammi vedere la forma umana del mio testo”.

L’artista ha mani occhi e pelle con cui sente la realtà a un grado più elevato, è un’intensità che lo rende destinatario privilegiato d’un dono, una maggiore consapevolezza nell’abitare la vita, un sonar da pipistrello – direbbe la Spaziani – per captare l’ultrasuono dell’universo. Ma questo implica anche la passione, la collisione con le cose, che toccate, lasciano la traccia, la stigmate del chiodo che àncora la santità della salvezza alla carnalità dell’umano dentro la Storia; sentire la poesia brucia: “Avevo toccato una parete rovente”. La Spaziani sosteneva che nel poeta restasse visibile la sua lotta con l’angelo. 

C’è nella poesia di Tiziana Cera Rosco un aspetto fortemente materico che si coniuga con la sua esperienza di artista: il corpo nudo degli autoritratti fotografici, o quello che si sporca dentro i calchi di gesso rispondono alla stessa esigenza di ricerca, d’espressione. Nella solitudine dei luoghi Lei cerca una forma di dislocazione e allontanamento: scava nei propri organi per diventare cava, vuota, ripulita da ogni forma di sentimento, persegue una forma di “immunità” dallo scorrere ordinato e piano, non intimamente creativo, delle giornate, perché solo così può riempirsi d’altro, risuonare. 

Questa è la fase preliminare dei lavori, degli studi, quella in cui si immagazzinano stimoli, si osservano coccinelle sui piatti, nodi d’albero, venature; in cui ci si pone in ascolto, come dice Celan della citazione in esergo alla sezione “Così poco destino nei vostri sguardi” in cui questa poesia è compresa, perché “la poesia è un dono fatto agli attenti”. E’ “Qui” – avverbio caro a Tiziana Cera Rosco – che qualcosa di atteso ma non ancora rivelato si imprime, come tentativo, domanda per diventare voce più avanti, ed essere ricollocato, congiunto dentro un dialogo più ampio. O se non succede resta “una frase che non si è più rivelata”, un’interruzione del venire al mondo: “la sera del nostro reale disinganno / Chiedimi se quella poesia a cui stavo accedendo / si trova ora in lutto in tutto l’universo”. “Tiziana dove oscilli?”

“Quali parole userò più con i miei figli” che insieme all’amato T. compaiono come Y. e K., destinatari di un colloquio, di conversazioni che non possono mai essere scontate. C’è un disagio, infatti, nella scollatura, nelle parole che non aderiscono alla verità che stiamo cercando, diventa difficile stare con le cose in una posa che non corrisponde alla folgorazione che abbiamo davanti agli occhi in quel momento. “Chiedimelo. / Fammi dire NO.”

C’è poi un atto di resistenza nella chiusa. “Lo spettro che sono oggi tra i vivi e i morti”, questa Persefone che si divide tra la primavera di superficie e gli inferi, non si disgrega dopo il “sonno” e la “Malattia Massima” d’una sofferenza privata, conserva unità nel riconoscere il proprio sé, in apparenza, dentro lo specchio: “fammi vedere la forma umana del mio testo”.

La poesia è prima di tutto un accadimento, un’esperienza, durante la quale, la mente tocca uno stato d’alterazione, accede a un altrove, dopo aver attraversato l’entropia dell’universo. L’esperienza del poetico comporta lasciarsi perforare dalla luce come l’acqua (luoghi dell’infanzia), mentre l’essere profondamente “qui”, presenti, implica essere fuori di sé, dislocati, per diventare conduttori d’elettricità nuove e ricomporre nel linguaggio quella “trasmissione a diverse frequenze”.

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Foto di copertina di T. Cera Rosco, autoritratto.

Mine vaganti

di Alessandra PAGANARDI

Durata: 116 minuti
Regia:  Ferzan Ozpetek
Cast:   Riccardo Scamarcio, Carolina Crescentini, Alessandro Preziosi, 
Nicole Grimaudo, Elena Sofia Ricci, Ennio Fantastichini, Daniele Pecci, Ilaria Occhini, Lunetta Savino, Dario Bandiera
Produzione Fandango, Rai Cinema
Sceneggiatura: Ferzan Ozpetek, Ivan Cotroneo
Fotografia: Maurizio Calvesi
Montaggio: Patrizio Marone
Musiche: Pasquale Catalano

Una famiglia ancorata a segreti, tradizioni e silenzi; un impero economico costruito con tenacia lungo tre generazioni; una vacanza che si protrae fuori programma in Italia meridionale, nella città d’origine di un giovane trasferitosi a Roma per celare la propria reale identità e realizzare il sogno di diventare scrittore. E tanta, tanta luce, Così Ozpetec declina in Mine vaganti, una delle sue prove più complesse e convincenti, i temi a lui consueti: la famiglia, la convivialità, l’orientamento di genere, la grettezza della mentalità comune, l’introspezione, la libertà. 

Come in altre opere dello stesso regista, in cui vengono affrontate tematiche simili (ad esempio Le fate ignoranti), Mine vaganti non è soltanto un film sull’esaltazione della libertà, ma soprattutto una meditazione sul prezzo che ciascuna scelta costa all’individuo e all’amarezza che inevitabilmente prevale. Non c’è alcuna risoluzione e si finisce per ritornare, come in un fatale loop, sulla chiusura della propria esistenza. L’unico personaggio davvero esemplare di una libertà totale (la vecchia e incompresa matriarca, interpretata da una meravigliosa Ilaria Occhini) è paradossalmente quello che dall’inizio ha rinunciato a tutto, e che alla fine pagherà di più. Non ci sono vincitori né vinti e gli estremi vita/morte, felicità/dolore, rinuncia/scelta si toccano e si mescolano in questa narrazione stratificata, fatta di continui e non sempre immediati flash-back. Il punto di vista è interno, la macchina da presa costantemente calata nell’anima di ciascun personaggio, con le sue innumerevoli sfumature e i suoi non detti. Anche il ruolo dell’imprenditrice Alba rimane felicemente irrisolto. Da un lato esso lascia nello spettatore il dubbio di costituire una semplice molla strumentale per movimentare la vicenda, dall’altro rivela una delle caratteristiche più interessanti del film: nonostante la determinazione dei protagonisti di confessare tutto o quasi di sé, qualcosa rimane sempre inespresso e i ritratti, lungi dall’essere sbalzati a tutto tondo, sono sfumati e delicati, quasi fosse chiesto allo spettatore di completarli ogni volta con la propria partecipazione e interpretazione.

La splendida luce leccese non esclude dunque l’ombra, anzi la richiama. La scena finale, di chiara matrice felliniana, è forse l’unica soluzione liberatoria, pur a carissimo prezzo. L’apertura quasi trascendente alla speranza di una riconciliazione fra vite irreparabilmente diverse e anime che non sono riuscite a capirsi non sorprende affatto, essendo stata preparata da un’atmosfera profondamente spirituale, che percorre tutto il film. Ovunque silenzi, sguardi, albe e tramonti consonanti con gli stati d’animo sospesi dei personaggi, oppure luci meridiane impietosamente rivelatrici nella loro forza accecante, si connotano come proiezioni di un dramma esistenziale mai risolto, perché non può essere esaurito con una semplice confessione verbale. Il regista sembra volerci dire che le parole in ogni caso non consumano l’angoscia, né riescono compiutamente a elaborarla. Possono riuscirci soltanto il silenzio attivo dell’esempio, l’elaborazione solitaria, l’uscita di scena al momento giusto, nella speranza che le generazioni future raccolgano ciò che è stato seminato. Forse la vita non è propriamente un’opera d’arte, come sosteneva Oscar Wilde, ma può comunque riscattare la mancanza con la testimonianza sempre nuova e inesausta di una ricerca individuale di felicità, per quanto destinata allo scacco.  Nella particolarità di questa ricerca, nella sua firma originale sta il lato estetico della vita e forse, per quanto possibile, la felicità stessa: assai più che nei gesti plateali, nelle confessioni aperte e nel desiderio (umanissimo ma destinato alla frustrazione) di essere compresi e accettati dagli altri   ̶ persino dalle persone che ci hanno accompagnato sin dai nostri albori e che dovrebbero amarci di più. 

La frase celebre del film è: «Gli amori impossibili non finiscono mai. Sono quelli che durano per sempre».

Mine vaganti è visibile gratuitamente cliccando sul link

https://cbo1.fun/movies/mine-vaganti-hd-2010/

MAURO DE MARIA. Affreschi in poesia

di Luigi CANNILLO

L’immagine e la successiva visione si sviluppano nella poesia di Mauro de Maria catturando la nostra attenzione, il nostro silenzio ammirato, proprio come se ci trovassimo di fronte alle opere d’arte alle quali l’autore fa riferimento,  “La cacciata dal paradiso terrestre” o “L’annunciazione”, il finto coro del Bramante, la pittura di Paolo Uccello, la pala d’altare trecentesca. Al campo lessicale del visivo fanno riferimento, in modo diretto o indiretto diversi elementi: oltre al verbo “vedere”, ripetuto e variamente coniugato, lo sguardo, l’illusione prospettica, la luce, la vista, gli occhi. La successione delle apparizioni si svolge fino ad arrivare/ritornare progressivamente all’oggi, allo spunto di partenza, “in perenne cammino sulla retina” nel segno della visione e della evocazione conseguente: “Chissà se sotto inchiesta ad Avignone/ avviandosi al processo Meister Eckhart/ vide Laura, concreta apparizione/ come secoli dopo tu a Tellaro”.

L’elemento della visione non resta mai solo estetico, ma è strettamente connesso al linguaggio poetico, “col piede della metrica”, grazie a un uso sapiente e meditato del ritmo e delle misure nella articolazione dei versi. Insieme ai riferimenti alla vista  un ruolo importante viene svolto dall’ascolto, dal senso dell’udito, come nelle parole dell’angelo annunziante e nel silenzio di Maria, nel suono della verga spezzata: “Ma non risentirai le mie parole/ colarti nell’orecchio/ come fluido vitale e non venefico/ né io fiorirmi in bocca suono e senso/ per farli scivolare/ sulla tua schiena nuda/ che premevi al mio cuore/ continuando a ripetere “mi parli?” È proprio la parola, elemento fondante della scrittura poetica, che opera la saldatura tra suono, pensiero e senso “e nel lago d’inchiostro getto un sasso/ fonetico ch’è l’eco del tuo passo/ fin dove arrivano i cerchi di senso”.  Grazie al saldarsi complessivo di immagine, suono e senso, De Maria sviluppa le sue poesie con una tessitura compatta e con slancio sinuoso dinamico. Nella trama e nell’ordito della composizione di quei tre elementi si sviluppano cerchi di senso in sequenze che realizzano l’epifania originaria e la relazione tra immagine di riferimento ed esperienza del Soggetto: per esempio nel passaggio dalle proprie parole attraverso quelle dell’angelo sulla pala d’altare alla carta, al suono inascoltato e al silenzio della persona protagonista al fondo – e alla fine – del testo.

Nella sua nota di presentazione alla raccolta più recente di De Maria, Dal lago del cuore, MC ed., 2022, Pasquale Di Palmo definisce il poeta: “autore appartato e riflessivo che ha al suo attivo tre libri poetici di indubbio spessore. Affidati al «lago del cuore» ci lasciamo trasportare dai suoi componimenti ariosi e, al contempo, strutturati entro lo scheletro di forme chiuse […] che documentano un lavoro artigianale rigoroso che tuttavia non rinnega il senso di perenne stupore, di meraviglia che traspare da questi versi.” Lo stupore di fondo rende fluidi e mai ordinari i collegamenti. Il processo tra rappresentazione artistica, percezione e approdo a ciò che (o a chi) appare più contiguo si compie anche in senso opposto: “Voglio vederti allontanare piano/ fino ad incastonarti/ lentamente nel fondale/ fra gli inserti di minio e di biacca/ che ho impastato all’azzurro del cielo/ e divenire icona di te stessa”. In altri casi è la scansione spaziale a rivestire il ruolo di parametro visivo ed esistenziale, come accade sopra una scacchiera: “la donna bianca sacrifica l’alfiere/ e in tre mosse decreta la sconfitta.”

La stessa scrittura, a fronte della selezione di questi testi effettuata dall’autore stesso, riveste pienamente la sua caratteristica di “criptare in poesia” potenziando la caratteristica di stilizzazione, per una rappresentazione non fine a se stessa ma parte indispensabile dell’Opera, del lavoro artigianale di cui scrive Di Palmo e dei suoi strumenti: forma, figure, trama, ordito, ritmo, assonanze. Il lavoro che rende l’artigiano artista.                                             

da Trame e orditi (Book editore 2013)

LA  CACCIATA  DAL  PARADISO  TERRESTRE

Meglio sarebbe stato esserne consci,

udire la sentenza, vedere

i cherubini e le spade di fuoco

e al costato mortale

occultare in segreto

un’anima di fiato

trattenendo il respiro sulla soglia,

farne il segno cifrato

d’una felicità che fu,

il seme di carrubo da uguagliare,

d’un’incerta occasione da sgusciare

la più certa pietra di paragone.

A questo penso rivedendo i luoghi

in cui ci salutammo senza saperlo,

al vento che separa i fili d’erba

e culla la farfalla

che non ha il tempo di pensarsi,

alla quercia che vide

la nostra vita acerba

e durerà dopo di noi

da Beatritz (Book editore 2017)

Morbide e senza peso

le mie parole a te

appoggiate nell’aria

come quelle dell’angelo annunziante

la grazia di Maria

dorate ed istoriate

su una pala d’altare trecentesca

e impresse in negativo sulla carta

solo dal fuoco a stampa del tuo sguardo

anche se hai fatto la tua scelta

e nulla può mutare

e non ti tocca il suono

della verga che spezzo col ginocchio,

anche se fai che tutto a te converga

senza che una parola

esca dalla tua bocca.

                         ***        

Voglio vederti allontanare piano

fino ad incastonarti 

lentamente nel fondale 

fra gli inserti di minio e di biacca  

che ho impastato all’azzurro del cielo 

e divenire icona di te stessa 

sempre lambita da parole 

stampate a foglia d’oro

sospinte fra le labbra e subito

mutate in risacca di fiato

come fossi scacciato dal tempio

uguagliato a un qualunque 

mercante d’amore 

capace solo di rapina e fuga

anche se posso dire

se hai pervaso l’aria e quando e quanto

da come il vento asciuga l’arenaria.

                              ***

Nostra è stata la sera di cristallo

retta da sguardi cauti

e incerte strategie

testate al lato opposto

d’una scacchiera che ha mimato il corso

d’una vita intera

in cui sono rimasto sempre in stallo

ma di poco discosto dal tuo cuore,

quanto bastava a credere che il moto

che la fisica ha studiato

lentamente ci avrebbe avvicinato

come corpi celesti in espansione,

ma nel frattempo i pretendenti

s’affacciarono alle torri

come si sporse dal balcone il re

che della sposa nuda

bramò l’intimo miele

(così narra il secondo Samuele);

e il resto è solo polvere

senza di te

e certo non occorre alcun pretesto

per espormi a una sorte ch’era scritta:

la donna bianca sacrifica l’alfiere

e in tre mosse decreta la sconfitta.

da Gli orecchini (Book editore 2019)

 Ma non risentirai le mie parole

 colarti nell’orecchio

 come fluido vitale e non venefico

 né io fiorirmi in bocca suono e senso

 per farli scivolare

 sulla tua schiena nuda

 che premevi al mio cuore

 continuando a ripetere “mi parli?”

 E la stoffa pregiata dei versi

 era la sola

 che potesse rivestirti

 come vivente epifania

 del paradiso: tu e la poesia.

                                                       ***

Volevi portarmi a Milano

davanti al finto coro del Bramante

a toccare con mano

lo spazio inesistente

fra il nulla del reale

e la divina dimensione 

in cui certo ora sei

se respiri nel computo falsato

della metrica e sorridi con me

dentro un’immagine stampata

che simula fra noi una distanza

per mera illusione prospettica.

da Dal lago del cuore (MC edizioni 2022)

   

Nelle sue eccelse Vite d’immortali

scrisse il Vasari che Paolo di Dono

mutato ed eternato in Paolo Uccello

fosse sordo ai richiami della moglie

in attesa nel letto;

immerso totalmente nel disegno,

rapito solo dalla prospettiva

progettava il divino.

Ma io certo non t’avrei resistito

e forse come immenso atto d’amore

per eccesso di fede o intuito retto

hai lasciato questa vita terrena

che risuona dell’eco d’armature

percosse in battaglia e baci agli stalli

della metrica a snodare stesure

come brilla di luce alle pitture

l’oro nei finimenti dei cavalli.

                                                     ***

Di silenzi emotivi ne ebbi anch’io

e avrei dovuto farne

fini esercizi di conversazione

come avresti dovuto fare tu

con le tue pause e le tue lunghe fughe

perché adesso è il silenzio che ci guida,

mezzo di conduzione

d’un calore immutato

e parole dal suono cifrato

come se il dialogo

fosse criptato in poesia

che a prima vista acceca

e a sprofondarvi svela i sedimenti

di significato, così ti penso

e nel lago d’inchiostro getto un sasso

fonetico ch’è l’eco del tuo passo

fin dove arrivano i cerchi di senso.

                                                        ***

Chissà se sotto inchiesta ad Avignone

avviandosi al processo Meister Eckhart

vide Laura, concreta apparizione

come secoli dopo tu a Tellaro;

posto che l’equazione creativa

sarebbe un’eresia contemporanea

regge al contrario il nesso

fra Madonna e Madonna

perché trasfigurate in poesia

e dal mondo dei morti sradicate,

in perenne cammino sulla retina

col piede della metrica o terreno

come fu il tuo premuto sugli scogli

nelle tue bianche scarpe da ginnastica

prima che divenisse cicatrice

cardiaca ed ora traccia e matrice

d’una cocente passione monastica.

                                                        ***

Quando mi volsi come a un tuo richiamo

silente in apparenza

ma di suono a frequenza preclusa

al campo umano

e dall’alto dei colli

scortata dall’estate

vidi la città eterna illuminata

fu la conferma che tutte le strade

convergono, per quanto

non portino a Roma ma a te;

per secoli cartografi e geografi

con algida fiducia

hanno posto reticoli sul mondo

lavorando di mimesi incolore

e con fallibili dati concreti,

ignorando la scienza dei poeti

e la via che dagli occhi porta al cuore.

Nota Biobibliografica

Mauro De Maria è nato a Parma, dove risiede, il 10/05/1960. Ha pubblicato singole poesie in antologie e riviste e quattro volumi di versi: “Trame e Orditi” (Book editore 2013, con una nota di Michele Abbati), “Beatritz” (Book editore 2017, con una nota di Giuseppe Marchetti), “Gli Orecchini” (Book editore 2019, con una nota di Alberto Bertoni), “Dal lago del cuore” (MC edizioni 2022, con una nota di Pasquale Di Palmo). Nel 2017 un profilo di “Beatritz” con testi e letture è apparso nel sito di Radioemiliaromagna e nel 2019 una scelta di alcune poesie ed un breve commento allo stesso libro è stato proposto in traduzione francese nella rivista “Recours au poeme”. Nel 2018 suoi testi sono entrati a far parte dell’antologia  “Testimonianze di voci poetiche 22 poeti a Parma” (puntoacapo editrice).               

#010.Claribel Alegrìa: l’incontro inatteso

di Alice SERRAO

L’incontro con la poesia ha la dimensione del non atteso: è una sera di primo autunno, che manca poco a mezzanotte e tolgo dalla borsa 80 pagine di un libro piccolo che ho comprato poche sere prima. Il numero 43 sul dorso della copertina mi viene in mente nella penombra dell’abat-jour, forse dovrei giocarlo alla fortuna. Stempero con le mani la rigidità del libro nuovo: questa fame recente che mi spinge a piegarli e infrangerli, i libri, per sentire la fisicità dell’oggetto, per prendere confidenza con il volume. 

Qualche poesia la conosco già: ho preso parte al reading in ricordo della poetessa, Claribel Alegrìa e ho letto io stessa due dei suoi testi nella traduzione italiana. 

Tuttavia è più tardi, nell’intimità della stanza “tutta per me” che il dialogo con questo “Voci” (Samuele editore, 2015) rivela il suo tesoro, schiude alla lettura due versi di quelli che sono un faro aperto nella combinazione della memoria, due versi che non te li scordi più e che mi fanno venire la voglia di scrivermeli sulla pelle interna della borsa di scuola, per rileggermeli sempre, per tenermeli dietro e sotto gli occhi, per farli leggere agli altri.

“Sono alte le colonne dei miei sogni 

a piedi nudi vanno verso il canto”

da C.Alegrìa, Anillo de Silencio in Voci (Samuele editore, 2015)

L’altezza della poesia è una conquista; implica disossare le parole alla ricerca di quella callida iunctura, di quella misurata eleganza, che le porti a nuove vette. Implica la “cortigiana sprezzatura” in cui si cela la fatica di questo labor limae. Il territorio della poesia è suolo sacro: un pomerium da valicare disarmati, nudi nei piedi, perché liberi, nudi ed esposti come dice quel verso che tanto amo della Pozzi… “Guardami…” Sono colonne d’Ercole: al di qua c’è il noto, al di là solo l’intuizione, la foresta di simboli. E tutto, tutto, muove verso il canto

Swimming Pool

di Alessandro MAGHERINI

Francia-Regno Unito, 2003
Diretto da François Ozon
Soggetto di Emmanuèle Bernheim
Sceneggiatura di François Ozon
Fotografia di Yorick Le Saux
Montaggio di Monica Coleman
Musiche di Philippe Rombi
Con Charlotte Rampling, Ludivine Sagnier, Charles Dance, Marc Fayolle
Durata: 94 min.

Negli anni Novanta il panorama cinematografico vede emergere tre grandi registi che con i loro capolavori daranno una forte impronta alla filmografia del nuovo millennio, per altri versi segnata da un generale decadimento qualitativo con l’affermarsi di stilemi ultracommerciali, effetti computerizzati, modalità televisive. 

Il terzetto è composto dal danese Lars von Trier, il coreano Kim Ki-duk (purtroppo deceduto nel dicembre 2020) e il francese François Ozon. Di quest’ultimo si apprezza, dapprima, Sotto la sabbia (2000), con il ritorno di Charlotte Rampling, splendida attrice di lungo corso, indimenticata interprete del Portiere di notte di Liliana Cavani (1974), ma è con l’enigmatico Swimming Pool (sempre con la Rampling, qui affiancata da una rutilante Ludivine Sagnier) che Ozon si afferma anche in Italia.

Qui la Rampling interpreta Sarah Morton, una giallista londinese di successo, che ha un rapporto quantomeno ambiguo con il suo editore John Bosload (interpretato da Charles Dance). Costui, messo alle strette dalle pressanti richieste di attenzione della donna, decide di allontanarla offrendole una sua villa con piscina nel Luberon, nella speranza che Sarah, ispirata dalla pace e dalla bellezza della Provenza, scriva per lui un nuovo romanzo, magari con nuovi personaggi, senza il solito ispettore protagonista delle storie precedenti.

È in quel contesto che fa il suo ingresso nella vicenda la giovane Julie, interpretata dalla Sagnier, ai tempi poco più che ventenne, misteriosa e non prevista figlia di John che porta lo sconquasso nella concentrazione creativa di Sarah.

In Swimming Pool vediamo una complicata confusione fra la narrazione che si sviluppa nel libro della protagonista e la fabula del film, ma è solo alla fine che possiamo rendercene conto. Prima assistiamo a un duello psicologico fra due donne di generazioni diverse e dal diverso background: freddezza britannica (“Ha un manico di scopa piantato nel culo”, dice Julie di Sarah) e calore mediterraneo. A una vicenda che si ingarbuglia sempre più e nel suo sviluppo si tinge pesantemente di noir

Il film è visibile gratuitamente al seguente link:  

https://www.raiplay.it/video/2021/05/Swimming-Pool-4f1762d6-1051-4388-90fa-a5a99186706e.html

La “frase celebre” è:

Tutti i premi sono come le emorroidi, presto o tardi ogni culo le prova.

#09.Montale. Quando l’idraulico è in vacanza

di Alice Serrao

tratto da Quando la moglie è in vacanza di Billy Wilder (1955)

Il caldo sfiancante di questa estate ha richiamato tra i ricordi un fotogramma di “Baaria” di Tornatore: è la scena in cui Mannina s’affretta a chiudere le imposte e a spostare tutti i mobili del soggiorno verso le pareti, per fare spazio al centro della stanza. Sgombrato il soggiorno, si sdraia e fa sdraiare i figli, con la pancia e l’orecchio rivolti al pavimento: solo così possono trovare refrigerio dall’onda d’afa che investe le case e le vie di questa assolata Sicilia. 

L’immobilità che si respira è la stessa che s’avverte davanti a “Il muro bianco” di Fattori: la canicola che non si cura dell’ombra stampata sullo “scalcinato muro” montaliano. 

Nell’ora del meriggio anche i pensieri rallentano, si dilatano; è l’estate piena delle città d’asfalto, delle metropoli che non dormono o che a dormire ci provano, resistendo al ronzio infestante delle zanzare, che odorano dalla pelle il buono del sangue. L’estate delle grandi speranze: la stagione in cui si ripongono verbi al futuro, come “farò” e “andrò”, imprese che sono state posticipate nell’attesa di avere finalmente “tempo per”, ma che si risolvono, come da spot pubblicitario, nella tranciante esclamazione del “fa caldo!”, mentre le pale del ventilatore o lo sventolare della mano concedono un sollievo breve.

Siamo ai primi di luglio e già il pensiero
è entrato in moratoria.
Drammi non se ne vedono,
se mai disfunzioni.
Che il ritmo della mente si dislenti,
questo inspiegabilmente crea serie
preoccupazioni.
Meglio si affronta il tempo quando è folto,
mezza giornata basta a sbaraccarlo.
Ma ora ai primi di luglio ogni secondo sgoccia
e l’idraulico è in ferie.

(Montale, Diario del ’71 e del ’72.)

“Il pensiero / è entrato in moratoria” e “il ritmo della mente si dislent[a]” rendendoci pigri alle risposte risolutive, indolenti alle iniziative, oziosi. E la mente così s’intorpidisce in un rimuginare inoperoso, s’annacqua. Perché “meglio si affronta il tempo quando è folto” e davvero “mezza giornata basta a sbaraccarlo”.

“Ma ora ai primi di luglio ogni secondo sgoccia / e l’idraulico è in ferie”. Una chiusa ironica ed arguta, che forse ammicca al titolo d’un altro famoso film, e in cui Montale sa dire in versi schietti questo lentissimo trascorrere del tempo, soprattutto di chi, a differenza dell’idraulico, non è in vacanza e osserva, fatalmente, il gocciare delle vedovelle in un luglio di siccità.