di ALICE SERRAO
#poesie sottobanco è una rubrica che parte da un’immagine: due compagni di banco che si passano di nascosto un foglietto su cui è scritta, folgorante come una rivelazione, una poesia; perché quando intravediamo la bellezza viene voglia di indicarla a qualcun altro, di condividerla.
Mi spiegarono la differenza tra uomo e donna - le caratteristiche elementari del maschio e della femmina. Non mi rivelarono però a quel tempo cosa si trovasse nel mezzo, all’incrocio imprevisto tra i due sessi. Crebbi con una dicotomia nelle ossa nel perenne adattamento all’una o all’altra identità. Solo dieci anni dopo compresi che esattamente nel mezzo -indefinita, sfumata, disforica - c’ero proprio io. (Giovanna Cristina Vivinetto, da Dolore minimo, Interlinea 2018)
“La vera natura delle cose ama confondersi” – dice Eraclito, citato da Vivinetto in apertura a una delle sezioni della raccolta del suo libro “Dolore minimo” (Interlinea 2018).
Al centro di “Dolore minimo” c’è lo scandalo del corpo, raccontato nella trasformazione, fisica e psicologica, che conduce Giovanni a divenire Giovanna. Un percorso caratterizzato dal “dolore”, che riesce a divenire “minimo”, marginale, solo nel momento in cui viene interiorizzato e assorbito, quando il tentativo di risanare la “dicotomia” giunge a un felice compromesso e il poeta passa da quel “perenne adattamento all’una/ o all’altra identità” alla lapidaria affermazione di sé: “compresi/che esattamente nel mezzo […] /c’ero proprio io.”
In questo canzoniere lirico della metamorfosi, il tema della riconquista della propria identità fonda la raccolta, sviluppandosi attorno a due cardini: il corpo e il nome.
Il corpo è il dato biologico di partenza, che viene indagato davanti allo “specchio” dall’io poetico che si confronta con le “caratteristiche / elementari del maschio / e della femmina”; il conflitto si attua tra il dato estrinseco di natura e la natura intrinseca del proprio sentire, tra necessità e scelta. Il corpo è infatti “disforico”: porta dentro un malessere. Quello di chi ha sempre orinato in piedi” pur desiderando di “sedersi senza deformare”.
Ciò che compie il cambiamento, ciò che può rendere “vivi e reali” è però solo il nome; nella sua potenza adamitica, esso sancisce in “tribunale” il passaggio, la nuova nascita, che non è dono, ma scelta. Il nuovo “battesimo” non avviene tramite un atto affermativo, bensì grazie allo “sbarazzarsi delle ‘emme’ sui documenti”: un gesto che toglie. La nuova identità emerge, infatti, non da un atto creativo, bensì da un atto privativo: come accade per i marmi di Michelangelo, la riconquista della forma viene dal gesto “a levare” che sbozza quel corpo “indefinito” ed elimina quanto eccede.
Particolarmente interessante è infatti l’idea reiterata che la nascita non sia atto positivo, ma menomazione. La poesia si rifà ai riti orfici, per i quali rinascere significa essere fatto a pezzi e riassembrato, come accade a Orfeo e a Osiride.
Ma la conferma definitiva, la legittimazione della nostra libertà di essere, viene necessariamente dalla relazione con l’altro, che ci tocca e “per un attimo mi restituisce/ tutto ciò che mi manca – e al suo miracolo /questa sera mi faccio donna. /Completamente.” Dopo il doloroso confronto con lo specchio, è l’incontro con l’altro a essere definitorio e definitivo, rito di iniziazione che immette un nuovo corpo a una nuova esperienza della realtà.
Gli altri, in questo testo, però, non hanno ancora questa funzione liberatoria, ma sono la terza persona plurale che ha il compito di “spiegare” e “rivelare” “le caratteristiche elementari” di una natura necessariamente dicotomica. E mentre loro spiegano la realtà classificata e definita in coppie oppositive, l’io del poeta comprende di trovarsi esattamente nel “mezzo”. Parola ripetuta due volte per ribadire la condizione del poeta; a ciò si aggiungono “incrocio” e “indefinita” “sfumata” ad indicare la mancanza di nitidezza nella percezione di un sé difficile da collocare tra gli aut-aut. Come già sosteneva Spitzer, infatti, sono proprio le ricorrenze, le spie lessicali, ad aprire un varco nel mondo creativo del poeta e a offrirci una chiave interpretativa.
Vivinetto ci racconta il suo processo di metamorfosi insistendo sull’elemento di dissonanza,
insistendo cioè sui prefissi privativi come “dis”, “in” o “a” (si veda qui “sfumata”, “disforica” “indefinita”) che sottolineano, insieme alle scelte lessicali in generale, quell’idea di mancanza di cui parlavamo prima. Se la metamorfosi è, letteralmente, il processo di cambiamento della forma (morfos), colto nel suo accadere e dispiegarsi (metà), allora, la poesia e il canzoniere di Vivinetto sono, come in Petrarca, il tentativo di dare ordine e, appunto, forma a una trasformazione evolutiva che conduce ad affermare, infine, “c’ero proprio io”.