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La notte

di ALESSANDRA PAGANARDI

(Italia, 1961) 

Durata: 122 minuti
Genere: Drammatico
Anno: 1961
Regia: Michelangelo Antonioni
Attori: Monica Vitti, Marcello Mastroianni, Jeanne Moreau, Rosy Mazzacurati, Bernhard Wicki.
Sceneggiatura: Michelangelo Antonioni, Ennio Flaiano, Tonino Guerra
Fotografia: Gianni Di Venanzo
Montaggio: Eraldo Da Roma
Musiche: Giorgio Gaslini

La morte di un amico è (letteralmente) un momento critico nella vita di una persona: non soltanto per l’inevitabile dolore che procura. “Critico” rimanda a “crisi”, scelta. Una persona con cui si sono condivisi momenti felici o meno felici scompare e ci costringe a ridisegnare la mappa della nostra vita, a ripensare a quei momenti e alle scelte passate che hanno determinato le nostre conquiste, forse le nostre frustrazioni. Senza contare che l’amico è generalmente un coetaneo: questo dato banalmente generazionale ci mette di fronte alla nostra morte imminente, alla tremenda fragilità del tutto.

Per Giovanni, scrittore di successo, e per la sua nevrotica moglie Lidia, la malattia terminale e la morte dell’amico Tommaso aprono un varco su un matrimonio al capolinea, ma soprattutto su problemi e dilemmi esistenziali mai risolti: la solitudine, la fedeltà, la passione, il rapporto con il successo e con il denaro, la vacuità e strumentalità dei rapporti umani ̶ forse persino di quelli più intimi e profondi. Sarà un’occasione mondana, nel corso della notte, a far emergere i conflitti latenti, ma soprattutto a rappresentare, in uno scenario sociale apparentemente ricco di ottimismo e di progetti (Milano in pieno boom economico), il vuoto esistenziale che attanaglia la città. Dietro il paravento rassicurante della ricostruzione, e forse proprio dietro l’ansia di modificare radicalmente il panorama metropolitano nel senso di una modernizzazione accelerata, si celano ancora vive le ferite di guerra; nell’ipocrisia e nella forzatura delle relazioni borghesi si legge la frettolosa rimozione del recente, doloroso conflitto civile. La peculiarità del film, in pieno stile antonioniano ̶ soprattutto se consideriamo la cosiddetta “trilogia dell’incomunicabilità”, di cui La notte fa parte ̶ sta nel rappresentare il disagio attraverso la doppia focale interna ed esterna: da un lato campi lunghi su una città ancora deturpata e in rapidissima trasformazione, dall’altro dettagli catturati al microscopio o al rallentatore e dialoghi fortemente intimistici, tipici di certa cinematografia francese, che sappiamo ben presente al regista. Non a caso lo stesso Roland Barthes ha dedicato pagine molto profonde al cinema di Antonioni, definendolo “di vigilanza”; si è parlato diffusamente anche di “soggettività senza soggetto”. Vanno viste in tal senso le lunghe passeggiate di Lidia fra ruspe, macerie, scene di violenza e indifferenza gratuite fino al surreale (memorabile la scena collettiva del pestaggio in una periferia desolata); i passaggi di aerei a bassa quota, fin troppo scopertamente perturbanti di per sé, ma resi soggettivamente ancor più inquietanti attraverso la postura, le movenze e le espressioni dei protagonisti.

Si esce da questo film, meritatamente premiato con l’Orso d’oro al Festival di Berlino, con la precisa sensazione del fallimento totale del linguaggio, ove si tratti di comunicare i sentimenti e soprattutto le emozioni. Il cinema di Antonioni è un cinema di sensazioni, o meglio un cinema di pensiero innestato direttamente sulle sensazioni: senza l’artificiosa mediazione della parola, oppure attraverso la dimostrazione patente della sua insufficienza. Come Antonioni così anche Bergman, scomparso per un curioso caso lo stesso giorno, mese e anno del collega, ha dedicato ai sentimenti un’altra memorabile trilogia: come a dimostrare che una singola opera, forse neppure un’intera serie tematica può bastare a esaurire un tema tanto complesso. Ma mentre Bergman, figlio di un pastore luterano, è ossessionato dalla morte e dagli aspetti inconciliabili tra vita e fede, Antonioni affronta i dilemmi in maniera più laica e aperta, con un distacco che sfiora spesso il cinismo. Nella scena finale, che per ovvie ragioni non descrivo, la macchina da presa è traslata alle spalle degli attori e saluta lo spettatore con un memorabile campo lunghissimo dalle molteplici interpretazioni, che non suggerisce né conclude.  

La notte è un film lungo due ore d’orologio, ma appare mirabilmente rallentato, ai limiti delle quasi ventiquattro della vicenda. Se sussistesse qualche dubbio sul fatto che tempo e durata siano (bergsonianamente) entità affatto diverse, quest’opera starebbe a chiarirlo definitivamente: non con un pedante ragionamento filosofico, ma con l’evidenza sensibile, assoluta dell’arte. Forse il film andrebbe visto proprio di notte, non fosse altro che per introdurre lo spettatore nel tempo surreale dell’insonnia, di cui sembra esso stesso magicamente materiato: quel tempo strano in cui tutto appare più grande, ma nel quale la verità, pur rimanendo sempre irraggiungibile, a volte sembra per un attimo così prossima a disvelarsi.

                                                                                                             

La notte è visibile gratuitamente cliccando sul link

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La frase famosa del film è: «Sono piena di vizi, ma senza praticarne nessuno».

Qualcosa di speciale

di Alessandro Magherini

Usa, 2009
Di Brandon Camp
Sceneggiatura: Brandon Camp, Mike Thompson
Fotografia: Eric Alan Edwards
Montaggio: Dana E. Glauberman
Musiche: Christopher Young
Con Aaron Eckhart, Jennifer Aniston, Martin Sheen, Dan Fogler, Judy Greer, John Carroll Lynch
Durata: 109 min. 

Okay, dice Ryan entrando nella platea affollata e lo ribadisce unendo a cerchio il pollice e l’indice nel tipico gesto. “A-Okay” è il titolo del seminario che tiene in un grande albergo di Seattle e Un sentiero attraverso il dolore è il libro che gli ha dato la celebrità. In realtà Ryan è un mentitore accanito, ha scritto quel libro per fuggire il dolore della perdita della moglie in un incidente stradale e per mascherare il proprio senso di colpa. Il testo, un manuale per elaborare il lutto, è una grande finzione perché l’autore non ha affrontato né elaborato un bel niente, ma ha fatto di Ryan un uomo di successo che viaggia da un capo all’altro degli States a tenere workshop e a firmare copie.

Ryan è rigido come un manico di scopa e ha paura ad entrare in un ascensore ma sa affascinare le sue platee sofferenti che lo seguono e lo adorano.

Se tutto restasse così non ci sarebbe storia, nessun viaggio interiore, nessuna trasformazione. Il film parte da queste premesse per arrivare a uno scioglimento che prefigura una rinascita per il protagonista. Attorno al quale si muovono alcuni personaggi chiave: Eloise, fiorista capace di vedere oltre le apparenze e di essere coerente con il proprio sentire; Lane, agente di Ryan, abile a farne fruttare il talento pur sapendo che si tratta di un bluff; Marty, aiutante di Eloise, autrice di poesie femministe con cui partecipa a incontri di slam poetry; infine Walter, che partecipa con riluttanza al seminario, e il suocero di Ryan: due personaggi laterali ma importanti nello smascherare la grande finzione.

Qualcosa di speciale è un film leggero e dallo svolgimento un po’ prevedibile, ma non sciocco: il tema dei personaggi carismatici, predicatori, leader e psicopompi e del loro rapporto con le masse e il mercato è attuale ed interessante: il film lo tratta con garbo e anche con un certo senso dell’umorismo, si fa vedere senza annoiare e non senza offrire spunti di riflessione allo spettatore.

Il film è visibile gratuitamente su Raiplay: 

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La “frase celebre” (da una performance di Marty):

Tu e il tuo fallo potete anche conquistare il mondo / ma quest’amazzone bastarda / ti taglierà le ali!     

Le vite degli altri

di Alessandra Paganardi

(Germania, 2006)
Durata: 137 minuti
Regia: Florian Henckel von Donnersmarck
Attori: Martina Gedeck, Ulrich Mühe, Sebastian Koch, Ulrich Tukur, Thomas Thieme, Hans-Uwe Bauer
Sceneggiatura: Florian Henckel von Donnersmarck
Fotografia: Hagen Bogdanski
 Montaggio: Patricia Rommel
 Musiche: Gabriel Yared, Stéphane Moucha

La libertà, la politica, la hybris e la pietas, ma anche  la disciplina, la responsabilità il rapporto con il Potere che corrompe, eppure non lo fa mai nostro malgrado: sono questi i temi portanti di un film che soltanto per caso e superficialmente può essere categorizzato come “spionistico”. Nella DDR degli anni Ottanta (sì, proprio la stessa dello splendido Il concerto di Radu Mihăileanu), che fatalmente declina verso il crollo del muro e le tentazioni del capitalismo, il capitano Gerd Wiesler (Ulrich Mühe) serve con grigia diligenza la Stasi. Il suo compito è spiare e interrogare i cittadini sospetti e anche insegnare ai futuri funzionari, con metodo e lucidità quasi eichmenniani, come fare (la scena metacinematografica della lezione iniziale è un vero capolavoro di cinema nel cinema, già sottilmente allusivo dell’elemento voyeuristico, che sarà la cifra dell’intero film). Le scene di vita quotidiana, i dialoghi, la stessa preparazione ed esecuzione dello spettacolo teatrale, di cui i protagonisti sono rispettivamente drammaturgo e prima attrice, mostrano la pesante normalità di una popolazione ormai avvezza a questo tipo di regime. Le loro vite, ormai si sa, sono (in senso rovesciato rispetto a quello volutamente e felicemente ambiguo del titolo) vite degli altri : non più proprie, ma in possesso perenne dei militari, che ne conoscono ogni minimo particolare, all’occorrenza anche i più intimi e imbarazzanti.

Il capitano Wiesler riceve dalle autorità una missione speciale: spiare lo scrittore Dreyman (Sebastian Koch) compagno dell’attrice Christa-Maria Sieland (Martina Gedeck),  della quale il ministro della Cultura si è incapricciato, allo scopo di incastrarlo ed eliminarlo. Per quanto il film sia famoso e la vicenda probabilmente nota ai molti che possono averlo già visto (ricordiamoci che vinse un meritatissimo Oscar per il migliore film straniero) non andrò naturalmente oltre nel resoconto.  A chi lo rivede spetta ora il compito della rilettura: imporre la resa dei conti a un’opera d’arte che è recente sia nell’ambientazione sia nella realizzazione, e proprio per questo si trova a serio rischio di scadenza, dopo ormai tre lustri e tanti ulteriori cambiamenti intervenuti. Ma ci rendiamo subito conto che Le vite degli altri, come tutti i grandi film, di scadenza non sembra proprio soffrire: per molti aspetti pare scritto proprio ieri, in quest’ epoca di apparente libertà totale, “liquida”, senza padroni né vincoli. Anzi, di sinistramente attuale c’è la presenza nelle nostre vite della tecnologia: eppure il livello degli strumenti da “grande fratello” del regime sovietico nel 1984 (anno in cui, certo non casualmente, è ambientato il film) è così primitivo da far sorridere, soprattutto se paragonato alle inafferrabili misure di controllo cui ci hanno ormai abituato i nostri palmari e smartphone. È assai probabile che l’attuale scenario, ormai sempre più singaporiano, fosse presente già diciassette anni fa all’intuizione profetica del regista. Si può pensare che Donnesmarck ne abbia fatto una chiave consapevole per orientare lo sguardo su un passato ancora recente, ma ormai chiuso e definito nelle sue coordinate storiche: dunque esplorabile con obiettività documentaria e  ̶  proprio per questo  ̶  suscettibile di un geniale scarto visuale, della messa a fuoco distopica verso un ancor più inquietante futuro.

È un film particolarmente difficile da seguire per la sceneggiatura raffinata e rapida, per la voluta opacità delle riprese, per la complessità non lineare dell’intreccio e per i frequenti colpi di scena, fra i quali spicca il meno probabile di tutti: la possibilità che le persone si trasformino spiritualmente, esprimano una parte buona di sé già presente e ben nascosta, oppure la facciano evolvere a carissimo prezzo, con un lavoro interiore di cui non si conosceranno mai le vere ragioni. Eppure non c’è alcun buonismo, nessuna concessione a un’improbabile retorica del progresso morale o del sacrificio: meno che mai all’epica, sia essa quotidiana oppure eroica. Persino le evoluzioni, le involuzioni e i drammi psicologici (come quello dell’amico regista dissidente, emarginato e infine suicida) sono tratteggiati con pudore e senza parole superflue. Sono piuttosto gli elementi paraverbali (sguardi, posture, gesti, affanni e rincorse) a denunciare sottotraccia la vicenda che va svolgendosi e ad accompagnare lo spettatore alla risoluzione, in uno scenario sempre più vicino temporalmente a quello dell’uscita del film. Lo scabro colloquio finale fra scrittore ed ex ministro ̶ in una Germania finalmente unificata, ma non per questo libera e felice ̶ è una lezione di dignità e un capolavoro di realismo storico-psicologico, anch’esso applicabile al presente e sempre più al futuro, che sembra compendiarsi nella lapidaria frase finale: «E gente come Lei ha governato questo paese!» .

Le vite degli altri è visibile gratuitamente cliccando 

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La frase celebre del film è: «Ma come fa chi ha ascoltato questa musica, ma veramente ascoltato, a rimanere cattivo? ».

La regola del silenzio

di Alessandro Magherini

USA, 2012
Diretto da Robert Redford 
Soggetto dall’omonimo romanzo di Neil Gordon
Sceneggiatura di Lem Dobbs 
Fotografia di Luca Bigazzi
Montaggio di Mark Day
Musiche di Cliff Martinez 
Con Robert Redford, Shia LaBeouf, Susan Sarandon, Julie 
Christie, Jackie Evancho, Nick Nolte. 
Durata: 125 min.

Un passaggio di Subterranean Homesick Blues di Bob Dylan dice: “You don’t need a weatherman to know which way the wind blows” (https://www.youtube.com/watch?v=MGxjIBEZvx0), non hai bisogno di un meteorologo per sapere da che parte soffia il vento. È a quell’affermazione che si ispirarono nel 1969 i fondatori del gruppo Weather Underground Organization (WUO), staccatosi dall’SDS (Students for a Democratic Society) – che aveva guidato le lotte nelle università americane fin dal 1964 – allo scopo di combattere “una guerra non di dominio ma per la fine di ogni dominio, non di distruzione ma di liberazione e di abolizione di ogni catena che limita la libertà umana” (Weathermen: i fuorilegge d’America, a cura di Harold Jacobs, Feltrinelli, Milano, 1973, trad. di S. Sarti, p. 123-24).

È questa la premessa storica su cui si basa La regola del silenzio, girato nel 2012 dall’allora settantacinquenne Robert Redford: nel 1980, quando il gruppo è ormai sul punto di essere inghiottito dalla repressione poliziesca e dal riflusso, alcuni weathermen compiono una rapina in banca nel Michigan, nel corso della quale viene uccisa una guardia giurata. Trent’anni più tardi, un avvocato vedovo e padre di una bambina, che vive ad Albany sotto la falsa identità di Jim Grant, finisce nel mirino dell’FBI in seguito alla confessione di Sharon Solarz, un’ex appartenente alla WUO spinta a consegnarsi alla polizia dai rimorsi di coscienza.

Al caso si interessa appassionatamente anche un giovane cronista di Albany, Ben Shepard, che si rivela anche più abile e perspicace dei poliziotti.

La vicenda – sebbene un po’ confusa negli snodi – è una coinvolgente caccia all’uomo nella quale Jim, il cui vero nome è Nick Sloan, riuscendo a tenere in scacco gli agenti, fa riemergere dalle nebbie della storia numerosi ex membri del gruppo armato, quasi tutti assai bene inseriti nel contesto sociale. Pur essendo un film d’azione, La regola del silenzio ha il punto di forza nei dialoghi e nelle storie che affiorano dai suoi attempati personaggi, cui fa da contraltare il vivace Ben, capace di arrivare sempre prima dei cops

I volti, poi, sono quelli di un cinema agé, fatto più di facce che di effetti e anche questo è un messaggio che ci arriva da sotto le rughe dello stesso Redford, di Nick Nolte e degli altri interpreti, soprattutto le sempre splendide Susan Sarandon e Julie Christie.

Il film è visibile gratuitamente su Raiplay:             

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La frase celebre è:

I segreti sono pericolosi, Ben, credi di volerli conoscere, ma se mai ne hai custodito uno avrai chiaro che quando arrivi a scoprire qualcosa che riguarda un’altra persona, scopri anche qualcosa di te stesso.

Quello che non so di lei

di ALESSANDRA PAGANARDI

(Francia-Belgio, 2017)
Durata: 110 min
Regia: Roman Polanski
Attori: Emmanuelle Seigner, Eva Green, Vincent Perez, Dominique Pinon, Brigitte Roüan, Noémie Lvovsky, Josée Dayan, Damien Bonnard, Saadia Bentaieb
Sceneggiatura: Roman Polanski, Olivier Assayas
Fotografia: Pawel Edelman
Montaggio: Margot Meynier
Musiche: Alexandre Desplat

Il doppio, l’ossessione, lo scambio tra finzione e realtà, i tarli psicologici che si fanno indistinguibili da vere e proprie possessioni demoniache: questi e altri temi di Roman Polanski, già noti in capolavori storici come Rosemary’s baby L’inquilino del terzo piano (ma a voler guardare in tutti i suoi film), tornano in questo inquietante masterpiece della tarda maturità. Delphine , interpretata da Emmanuelle Seigner, è autrice di un bestseller autobiografico che, dopo averla duramente provata emotivamente, le costa una vicenda di stalking e una buia fase di blocco creativo. È a questo punto che la protagonista incontra Lei, una bellissima donna stranamente somigliante a una versione più giovane e più disinvolta di se stessa, che prende possesso della sua personalità, della sua casa e della sua vita.

Un film bello e inquietante, passibile di interpretazioni aperte e controverse. Come in Misery non deve morire, tratto dal famoso romanzo di Stephen King, il protagonista è uno scrittore e il comprimario ne diviene doppio inquietante e manipolatore, fino a sovrapporvisi e a fagocitarlo. Un’altra analogia fra le due opere è l’ipercura distruttiva, che tuttavia in Polanski, a differenza che in Reiner. non si risolve mai in dolo evidente. Realtà e ossessione, ambiguità e disvelamento convivono qui senza mai elidersi. Delphine è una donna inquieta, incapace al fondo di essere felice (anche nella vita privata) e di godere pienamente del meritato successo; Elle ne è la controparte vitale. Il rispecchiamento patologico fra le due si fa manifesto in dialoghi memorabili (come quello sull’amica immaginaria, in cui Elle descrive una sorta di figura-ponte fra le due donne e comincia a delineare quella che sarà la soluzione finale). Ma Elle è anche la controparte sadica di Delphine, che trova perfetto riscontro e completamento nel lato masochistico della scrittrice frustrata, depressa e incapace di elaborare attraverso la creatività i propri drammatici vissuti famigliari.

Fra citazioni raffinate (una per tutte, la più evidente, da Hitchock nella Finestra sul cortile) ed espressioni sempre più enigmatiche del volto di Eva Green/Lei, la rappresentazione di questo thriller psicologico vola verso una conclusione sempre più concitata. Anche se le interpretazioni possibili sono più di una, a venire in aiuto è sicuramente il titolo: “Lei”, nome lasciato volutamente in sospeso, è anche il doppio della protagonista, con gli stessi occhi verdi, i capelli rossi e una vocazione diversamente espressa per la scrittura. La mancanza di ispirazione che affligge la protagonista è il trigger che crea nella sua mente turbata un alter-ego più risolto, più adatto all’esistenza e forse anche al mestiere di scrittrice: un’amica immaginaria, appunto. Accogliendola nella sua vita, e vedendola altrettanto improvvisamente sparire, Delphine riuscirà finalmente a scrivere il secondo libro, ma anche a raggiungere una sorta di sintesi esistenziale con se stessa. Alla fine lo spettatore comprende che non ha molta importanza stabilire se  Elle sia una pura e semplice creazione della mente di Delphine, se sia un personaggio realmente esistente nella finzione affabulatoria oppure sia, al limite, la rappresentazione stessa, puramente letteraria e intradiegetica, del libro futuro. 

Polanski riesce comunque magistralmente a possedere l’anima del pubblico fino all’ultimo respiro, con una sceneggiatura perturbante e in tutti i sensi noir. Il finale della pellicola suggerisce, nel caso più felice, una sorta di conclusione di un processo analitico: ma sappiamo bene che l’analisi è interminabile e il particolare decisivo dell’ultima scena, che naturalmente non svelo qui, lascia aperta un’ulteriore ipotesi. Possiamo cioè immaginare che, come un disco rotto, la vicenda ricominci in una sorta di loop ossessivo e che possa esistere un altro film identico a questo, un altro viaggio irrisolto nell’ anima: forse l’arte di per sé non serve affatto a trovare la pace interiore. Occorre un altro passaggio di maturazione. Qui lo spettatore, dominato dal regista fino all’ultimo momento, è veramente lasciato libero di riscrivere il film da capo e di trovare la propria irripetibile risposta.

Quello che non so di lei è visibile gratuitamente cliccando

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La frase celebre del film è: «Tutti gli scrittori rubano fatti veri, tu ti rifiuti di scrivere il tuo libro nascosto».

Antonia

di Alessandro MAGHERINI

Italia, 2015
Diretto da Ferdinando Cito Filomarino
Soggetto: Ferdinando Cito Filomarino, Carlo Salsa 
Sceneggiatura: Ferdinando Cito Filomarino, Carlo Salsa
Montaggio: Walter Fasano
Prodotto da Luca Guadagnino e Marco Morabito
Con Linda Caridi, Federica Fracassi, Filippo Dini, Alessio Praticò, Maurizio Fanin, Luca Lo Monaco
Durata: 96’

Terzo film sulla figura della poetessa Antonia Pozzi, è il primo con una struttura narrativa tradizionale. Gli altri due – Poesia che mi guardi di Marina Spada (2009) e Il cielo in me(2014) di Sabrina Bonaiti e Marco Ongania – potrebbero essere definiti dei “docufilm”. Qui, invece, troviamo un racconto biografico che si dipana lineare secondo classici stilemi di fiction.

Antonia Pozzi, autrice sconosciuta in vita, fu introdotta al pubblico della poesia da Eugenio Montale e dall’amico Vittorio Sereni. Purtroppo la sua vita era stata da tempo stroncata da una massiccia dose di barbiturici assunta in un freddo giorno di dicembre in un prato nei pressi dell’abbazia di Chiaravalle, a sud di Milano.

In Antonia, il personaggio è interpretato da Linda Caridi che, quando fu girato il film, aveva circa la stessa età della Pozzi ai tempi della sua morte. Un’età critica per gli artisti se pensiamo che alla poetessa mancavano poco più di due mesi per raggiungere i fatidici 27 anni, quelli che pochi decenni più tardi avrebbero rapito B. Jones, J. Hendrix, J. Joplin, J. Morrison, J.M. Basquiat, K. Cobain.

Questo riferimento ad artisti della cultura rock non è casuale, Antonia fu, in un certo senso, precorritrice di quella passione anticonvenzionale e antiborghese che avrebbe caratterizzato gli anni del dopoguerra, dall’epopea beat in avanti. Nata con qualche decennio d’anticipo, non trovò intorno a sé un milieu in grado di comprenderla: troppo “ingessata”, anche se prestigiosa, l’intellighenzia universitaria in cui era inserita, a partire dal professore Antonio Banfi che lesse alcune delle sue poesie ma non ne apprezzò l’effusione lirica e il soggettivismo.

Tutto questo e altro ancora ci fa leggere il bel film di Ferdinando Cito Filomarino, di cui si nota la vicinanza stilistica al più celebre amico Luca Guadagnino (peraltro produttore del film), di cui riprende atmosfere già viste in Io sono l’amore (2009), forse il capolavoro del cineasta palermitano.

In una Milano molto riconoscibile, a Pasturo (in Valsassina), sulle scoscese pareti delle montagne lecchesi ritroviamo, così, Antonia con le sue poesie, il suo diario e i personaggi della sua vita, dal padre, il severo avvocato fascista Roberto Pozzi, ai suoi amori – Antonio Maria Cervi, Remo Cantoni, Dino Formaggio – con, forse, degli elementi di fantasia, in quanto non riconosciuti dai più attenti biografi, come certe effusioni saffiche en passant e un amplesso campestre con Remo, che però ravvivano l’atmosfera e danno modernità al personaggio. 

Il film è visibile gratuitamente a questo link:

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La frase celebre è:

Anch’io non ho radici

che leghino la mia

vita – alla terra –

Dalla poesia Ninfee di Antonia Pozzi.

Mine vaganti

di Alessandra PAGANARDI

Durata: 116 minuti
Regia:  Ferzan Ozpetek
Cast:   Riccardo Scamarcio, Carolina Crescentini, Alessandro Preziosi, 
Nicole Grimaudo, Elena Sofia Ricci, Ennio Fantastichini, Daniele Pecci, Ilaria Occhini, Lunetta Savino, Dario Bandiera
Produzione Fandango, Rai Cinema
Sceneggiatura: Ferzan Ozpetek, Ivan Cotroneo
Fotografia: Maurizio Calvesi
Montaggio: Patrizio Marone
Musiche: Pasquale Catalano

Una famiglia ancorata a segreti, tradizioni e silenzi; un impero economico costruito con tenacia lungo tre generazioni; una vacanza che si protrae fuori programma in Italia meridionale, nella città d’origine di un giovane trasferitosi a Roma per celare la propria reale identità e realizzare il sogno di diventare scrittore. E tanta, tanta luce, Così Ozpetec declina in Mine vaganti, una delle sue prove più complesse e convincenti, i temi a lui consueti: la famiglia, la convivialità, l’orientamento di genere, la grettezza della mentalità comune, l’introspezione, la libertà. 

Come in altre opere dello stesso regista, in cui vengono affrontate tematiche simili (ad esempio Le fate ignoranti), Mine vaganti non è soltanto un film sull’esaltazione della libertà, ma soprattutto una meditazione sul prezzo che ciascuna scelta costa all’individuo e all’amarezza che inevitabilmente prevale. Non c’è alcuna risoluzione e si finisce per ritornare, come in un fatale loop, sulla chiusura della propria esistenza. L’unico personaggio davvero esemplare di una libertà totale (la vecchia e incompresa matriarca, interpretata da una meravigliosa Ilaria Occhini) è paradossalmente quello che dall’inizio ha rinunciato a tutto, e che alla fine pagherà di più. Non ci sono vincitori né vinti e gli estremi vita/morte, felicità/dolore, rinuncia/scelta si toccano e si mescolano in questa narrazione stratificata, fatta di continui e non sempre immediati flash-back. Il punto di vista è interno, la macchina da presa costantemente calata nell’anima di ciascun personaggio, con le sue innumerevoli sfumature e i suoi non detti. Anche il ruolo dell’imprenditrice Alba rimane felicemente irrisolto. Da un lato esso lascia nello spettatore il dubbio di costituire una semplice molla strumentale per movimentare la vicenda, dall’altro rivela una delle caratteristiche più interessanti del film: nonostante la determinazione dei protagonisti di confessare tutto o quasi di sé, qualcosa rimane sempre inespresso e i ritratti, lungi dall’essere sbalzati a tutto tondo, sono sfumati e delicati, quasi fosse chiesto allo spettatore di completarli ogni volta con la propria partecipazione e interpretazione.

La splendida luce leccese non esclude dunque l’ombra, anzi la richiama. La scena finale, di chiara matrice felliniana, è forse l’unica soluzione liberatoria, pur a carissimo prezzo. L’apertura quasi trascendente alla speranza di una riconciliazione fra vite irreparabilmente diverse e anime che non sono riuscite a capirsi non sorprende affatto, essendo stata preparata da un’atmosfera profondamente spirituale, che percorre tutto il film. Ovunque silenzi, sguardi, albe e tramonti consonanti con gli stati d’animo sospesi dei personaggi, oppure luci meridiane impietosamente rivelatrici nella loro forza accecante, si connotano come proiezioni di un dramma esistenziale mai risolto, perché non può essere esaurito con una semplice confessione verbale. Il regista sembra volerci dire che le parole in ogni caso non consumano l’angoscia, né riescono compiutamente a elaborarla. Possono riuscirci soltanto il silenzio attivo dell’esempio, l’elaborazione solitaria, l’uscita di scena al momento giusto, nella speranza che le generazioni future raccolgano ciò che è stato seminato. Forse la vita non è propriamente un’opera d’arte, come sosteneva Oscar Wilde, ma può comunque riscattare la mancanza con la testimonianza sempre nuova e inesausta di una ricerca individuale di felicità, per quanto destinata allo scacco.  Nella particolarità di questa ricerca, nella sua firma originale sta il lato estetico della vita e forse, per quanto possibile, la felicità stessa: assai più che nei gesti plateali, nelle confessioni aperte e nel desiderio (umanissimo ma destinato alla frustrazione) di essere compresi e accettati dagli altri   ̶ persino dalle persone che ci hanno accompagnato sin dai nostri albori e che dovrebbero amarci di più. 

La frase celebre del film è: «Gli amori impossibili non finiscono mai. Sono quelli che durano per sempre».

Mine vaganti è visibile gratuitamente cliccando sul link

https://cbo1.fun/movies/mine-vaganti-hd-2010/

Swimming Pool

di Alessandro MAGHERINI

Francia-Regno Unito, 2003
Diretto da François Ozon
Soggetto di Emmanuèle Bernheim
Sceneggiatura di François Ozon
Fotografia di Yorick Le Saux
Montaggio di Monica Coleman
Musiche di Philippe Rombi
Con Charlotte Rampling, Ludivine Sagnier, Charles Dance, Marc Fayolle
Durata: 94 min.

Negli anni Novanta il panorama cinematografico vede emergere tre grandi registi che con i loro capolavori daranno una forte impronta alla filmografia del nuovo millennio, per altri versi segnata da un generale decadimento qualitativo con l’affermarsi di stilemi ultracommerciali, effetti computerizzati, modalità televisive. 

Il terzetto è composto dal danese Lars von Trier, il coreano Kim Ki-duk (purtroppo deceduto nel dicembre 2020) e il francese François Ozon. Di quest’ultimo si apprezza, dapprima, Sotto la sabbia (2000), con il ritorno di Charlotte Rampling, splendida attrice di lungo corso, indimenticata interprete del Portiere di notte di Liliana Cavani (1974), ma è con l’enigmatico Swimming Pool (sempre con la Rampling, qui affiancata da una rutilante Ludivine Sagnier) che Ozon si afferma anche in Italia.

Qui la Rampling interpreta Sarah Morton, una giallista londinese di successo, che ha un rapporto quantomeno ambiguo con il suo editore John Bosload (interpretato da Charles Dance). Costui, messo alle strette dalle pressanti richieste di attenzione della donna, decide di allontanarla offrendole una sua villa con piscina nel Luberon, nella speranza che Sarah, ispirata dalla pace e dalla bellezza della Provenza, scriva per lui un nuovo romanzo, magari con nuovi personaggi, senza il solito ispettore protagonista delle storie precedenti.

È in quel contesto che fa il suo ingresso nella vicenda la giovane Julie, interpretata dalla Sagnier, ai tempi poco più che ventenne, misteriosa e non prevista figlia di John che porta lo sconquasso nella concentrazione creativa di Sarah.

In Swimming Pool vediamo una complicata confusione fra la narrazione che si sviluppa nel libro della protagonista e la fabula del film, ma è solo alla fine che possiamo rendercene conto. Prima assistiamo a un duello psicologico fra due donne di generazioni diverse e dal diverso background: freddezza britannica (“Ha un manico di scopa piantato nel culo”, dice Julie di Sarah) e calore mediterraneo. A una vicenda che si ingarbuglia sempre più e nel suo sviluppo si tinge pesantemente di noir

Il film è visibile gratuitamente al seguente link:  

https://www.raiplay.it/video/2021/05/Swimming-Pool-4f1762d6-1051-4388-90fa-a5a99186706e.html

La “frase celebre” è:

Tutti i premi sono come le emorroidi, presto o tardi ogni culo le prova.

Il conformista

di Alessandra Paganardi

IL CONFORMISTA 
(Italia, Francia, Germania occidentale, 1970) 
 
Durata: 108 min
Genere: Drammatico
Anno:1970
Regia: Bernardo Bertolucci
Attori: Jean-Louis Trintignant, Stefania Sandrelli, Dominique Sanda, Pierre Clémenti, Enzo Tarascio, Gastone Moschin, José Quaglio, Milly, Christian Alegny, Yvonne Sanson, Benedetto Benedetti, Giuseppe Addobbati, Fosco Giachetti, Gino Vagni, Pierangelo Civera, Antonio Maestri, Alessandro Haber, Pasquale Fortunato, Christian Belegue, Claudio Cappelli, Carlo Gadda, Marta Lado, Franco Pellerani, Luciano Rossi, Umberto Silvestri
Formato: PANORAMICA, TECHNICOLOR
Distribuzione: PARAMOUNT CIC
Sceneggiatura: Bernardo Bertolucci, Franco Arcalli
Fotografia: Vittorio Storaro
Montaggio: Franco Arcalli
Musiche: Georges Delerue

Marcello Clerici è un uomo normale. Troppo normale. Ed essere normali in Italia negli anni Trenta significa essere obbedienti, non coltivare alcuna passione spontanea (magari a costo di soffocare a viva forza le tracce di un passato inconfessabile); significa stipulare un matrimonio di convenienza con una donna cui non si ha nulla da dire, né quasi desiderio di avvicinarsi, se non per sporadici, fisiologici risvegli di concupiscenza. Vuol dire anche vivere all’ombra di un regime con il quale si spera, forse, di condividere un giorno il potere, quale risarcimento di una felicità mutilata sin dall’infanzia e sempre più lontana. Tutto umano, troppo umano, fino alla condiscendenza venata di ambizione, invidia e codardia, che spinge a diventare delatori, collaborazionisti, spie, assassini. 

Il conformista non è un film storico o documentaristico, benché sia ispirato all’omonimo romanzo di Moravia, che idealmente conclude l’indagine narrativa sul fascismo iniziata con Gli indifferenti. Le differenze fra libro e film, sia sul piano estetico che narratologico, sono state ben messe in evidenza dal magistrale studio di Nicolas Violle Il teatro delle ombre, o la rappresentazione del delitto Rosselli attraverso Moravia e Bertolucci (in AA.VV, I fratelli Rosselli e l’esilio, Carocci editore, 2011, a cura di Alessandro Giacone ed Éric Vial). La fonte è per entrambe le opere, con variazioni e rimandi rispetto alla verità storica, il delitto Rosselli, come scrive lo stesso Violle: «In entrambe le opere il contesto storico della vicenda non è delineato con precisione. Il romanzo la colloca nel 1938, probabilmente perché per Moravia in quel momento la guerra di Spagna aveva fornito la prova che l’Europa democratica era incapace di difendersi dall’aggressione delle potenze totalitarie. Il film, di contro, situa l’accaduto all’epoca di un fascismo trionfante. Tuttavia Moravia non ha mai negato di aver tratto ispirazione dal dramma familiare – ricordiamo che Moravia e i Rosselli erano cugini – che aveva traumatizzato lui e la sua famiglia. Inoltre egli avrebbe ammesso in seguito che la lotta dei Rosselli non gli bastava: giudicava positiva solo la rivolta, in ogni caso non la politica. Il comunismo, dunque, più che il riformismo social-liberale di Giustizia e Libertà.». L’oppositore da eliminare, nel film di Bertolucci, è il professor Quadri, già docente di Marcello, che proprio per questo motivo è stato scelto per avvicinare la vittima designata. Il personaggio adombra la figura di Carlo Rosselli, mentre la presenza fortuita di Nello nel luogo di villeggiatura francese dell’agguato è rappresentata, con audace flessione, dalla sorte della moglie, una sempre splendida Dominique Sanda.

Siamo certamente d’accordo sulle sfumature sottolineate da Violle, che distinguono due date separate da un intervallo di quasi vent’anni (dal 1951 al 1970), in cui il mondo della cultura, affrancandosi dall’eredità un po’ ingombrante del neorealismo, ha cominciato il lungo processo (forse a tutt’oggi non ancora concluso) di elaborazione del ventennio fascista e della guerra civile.  La visione di Moravia, intellettuale comunista impegnato in una critica tout court alla borghesia, è molto diversa da quella più individualista e gauchista di Bertolucci. Eppure Il conformista non può neppure dirsi un film psicologico, perché nessun personaggio (né i protagonisti, né i caratteristi) è approfondito psicologicamente: tranne forse Marcello, sul cui passato grava un fardello di traumi, misteri e segreti, che non troverà soluzione neppure nell’inattesa scena finale. A ben guardare il vero protagonista del film è lo snodo della relazione ambigua, reticente e perversa che lega il quartetto vittima/carnefice con le rispettive mogli: un intreccio dinamico che supera qualunque schema diegetico riconoscibile e che non lascia respiro. È continuamente sospeso fra una narratività franta e un apparato teatrale post-decadentista che, soprattutto nelle scene degli interni, a tratti si ritrova in alcuni capolavori quasi coevi di Visconti e Cavani (il rimando quasi obbligato al Portiere di notte, posteriore di quattro anni rispetto a Il Conformista, non può far dimenticare alcune atmosfere analoghe di film meno celebrati della stessa autrice, come Al di là del bene e del male, di poco successivo). Ma se Liliana Cavani, soprattutto nel primo film citato, spinge la sua riflessione sul problematico confine fra bene e male a un livello più decisamente ontologico, Bertolucci mantiene tutta questa materia fluida e la trasforma nel collante perverso che lega l’intera vicenda biografica di Marcello: dall’infanzia abusata, alla partecipazione passiva eppure feroce al delitto politico, all’inquietante conclusione, nello stesso tempo onirica e reale (sulla quale ovviamente non anticipo nulla).

Si conclude la visione del film con un senso di sporcizia e di disagio, come contagiati da un male oscuro. Ricordo del resto una bellissima e poco nota poesia di Umberto Saba, scritta rammentando gli anni del servizio militare, in cui il poeta confessa di aver avuto in quel periodo giovanile soltanto un sogno: essere uguale agli altri, essere normale. Marcello Clerici, come tanti della sua generazione e non solo, è incapace di volare alto sopra questo piccolo sogno meschino, che è un po’ di tutti noi e persino dei grandi poeti. Il valore etico-civile del film consiste nel mostrare, non attraverso lunghi discorsi, ma nella rappresentazione impietosa di una nemesi esistenziale, come il male cominci proprio dal non ammettere l’universale, profonda paura di essere diversi, magari scambiandola per obbedienza spontanea alle regole; e come un regime liberticida possa manipolare, oltre ai comportamenti, alle idee e alla coscienza, anche e soprattutto l’inconscio, conducendo tante persone “normali” a non ammetterlo mai più.                                                                                          

Il conformista è visibile gratuitamente cliccando sul link

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La frase famosa del film è: «L’uomo normale è un vero fratello, un vero cittadino, un vero patriota. Un vero fascista».                              

Ti ricordi Dolly Bell?

di ALESSANDRO MAGHERINI

(Jugoslavia, 1981)
Diretto da Emir Kusturica
Dal romanzo omonimo di Abdulah Sidran
Sceneggiatura di Abdulah Sidran ed Emir Kusturica
Fotografia di Vilko Filač e Milenko Uherka
Montaggio di Senija Tičić
Musiche di Zoran Simjanović
Con Slavko Štimac, Slobodan Aligrudić, Ljljana Blagojević
Durata 107 min.

Dino fuma, si innamora, perde la verginità, perde suo padre. Sullo sfondo crescono nuovi palazzi a Sarajevo mentre il comunismo è un’etichetta che abbraccia Rosso levante e ponente, un inno russo di fine Ottocento fatto proprio dai partigiani italiani dell’Armata di Liberazione jugoslava, e 24000 baci, successo sanremese di Adriano Celentano e Little Tony nel 1961.

«“Non avevamo niente, ma allo stesso tempo avevamo tutto / siamo cresciuti, abbiamo ballato, cantato, tutti conoscevamo Sanremo” cantava all’inizio degli anni ’80 il cantautore sarajevese Kemal Monteno, alludendo ai suoi ricordi di gioventù». E ancora, sempre in riferimento agli anni ’50 e ‘60: «Accadde spesso che la cultura di massa statunitense arrivasse nel paese [la Jugoslavia] mediata da quella italiana, che agiva nei suoi confronti come un filtro e ammortizzava le sue spinte eversive». Così scrive la storica e studiosa slavista Francesca Rolandi in un suo articolo (https://www.academia.edu/15352874/Tutti_conoscevamo_Sanremo._La_musica_leggera_italiana_in_Jugoslavia) che prende le mosse proprio dall’atmosfera di Ti ricordi di Dolly Bell?, primo lungometraggio di Emir Kusturica, uscito nel 1981 e impostosi al Festival di Venezia come migliore opera prima.

La commissione culturale della Casa del popolo di quartiere decide di incentivare la creatività dei giovani avvicinandoli alla musica e al ballo al fine di contrastare la criminalità, il Comune fornirà gli strumenti e Dino e i suoi fratelli daranno vita al complesso che avrà in 24000 baci il proprio cavallo di battaglia. Nel frattempo si guardano film italiani, come Europa di notte (1959), un documentario di Alessandro Blasetti sui locali notturni delle principali città del Vecchio continente, ed è lì che appare la figura che come un marchio colpisce l’immaginario dei giovani spettatori: la spogliarellista (del Crazy Horse) Dolly Bell. E Dolly Bell diventa lo pseudonimo di una giovane prostituta locale, il cui sfruttatore, anche grazie a una sensazionale moto BMW, ha un certo ascendente su Dino e i suoi amici.

Storia “di formazione”, Ti ricordi di Dolly Bell? rivelò al pubblico lo stile narrativo di Kusturica, è la prima delle sarabande slave (ne cito soltanto tre: UndergroundGatto nero, gatto biancoLa vita è un miracolo) che tanto successo e riconoscimenti internazionali hanno fruttato al loro autore. Rivederlo oggi, a tanti anni di distanza dalla tragica divisione della Jugoslavia e dalla triste fine di quell’ardito esperimento che fu il socialismo autogestionario, riempie il cuore di tenerezza.

Il film, sottotitolato, è visibile gratuitamente su Arte in italiano a questo link:

https://www.arte.tv/it/videos/106110-000-A/ti-ricordi-di-dolly-bell-1981-di-emir-kusturica/

La “frase celebre” è:

“Il comunismo è una condizione umana!”.    

Cognome e nome: Lacombe Lucien

di Alessandra Paganardi

COGNOME E NOME: LACOMBE LUCIEN
(Francia, 1974)
 
Durata:138 min
Regia: Lous Malle
Con: Pierre Blaise,  Jean Bousquet, René Bouloc, Stéphane Bouy, Gabriel Cabessut, Donato Castellaneta, Aurore Clément, Pierre Decazes, Thérèse Giehse, Loumi Jacobesco, Mimi Juskiewenski, Claude Marcan, Ave Ninchi, Jean Mourat, Cécile Ricard, Franz Rudwick, Gilberte Rivet, Jacques Rispal, Pierre SaintonsCon:  Pierre Blaise,  Jean Bousquet, René Bouloc, Stéphane Bouy, Gabriel Cabessut, Donato Castellaneta, Aurore Clément, Pierre Decazes, Thérèse Giehse, Loumi Jacobesco, Mimi Juskiewenski, Claude Marcan, Ave Ninchi, Jean Mourat, Cécile Ricard, Franz Rudwick, Gilberte Rivet, Jacques Rispal, Pierre Saintons.
 
Distribuzione: FOX – L’UNITA’ VIDEO
Sceneggiatura: Louis Malle, Patrick Modiano
Fotografia: Tonino Delli Colli
Montaggio: Suzanne Baron
Musiche: Django Reinhardt
Produzione: CLAUDE NEDJAR PER LA NEF, LA UPF, LA VIDES
 
 

Si apre con due sequenze magistrali questo film originalissimo di Louis Malle , dal titolo volutamente anonimo e quasi eponimo dell’intera storia; un nome e un cognome fra i più diffusi in Francia, un destino purtroppo frequente in una generazione – quella del collaborazionismo di Vichy – sulla quale per lungo tempo pesò la frettolosa “damnatio memoriae” di De Gaulle e con la quale non è tuttora facile fare i conti. Ma non è una storia soltanto francese. È una “storia comune”, direbbe De Gregori: più precisamente la narrazione di come la guerra acuisca il peggio di ognuno di noi e, soprattutto, rovini i soggetti in formazione. Le prime scene, dunque, contengono in nuce l’intero film e preparano a ciò che vi si racconta: il diciassettenne Lucien corre in bicicletta in una campagna francese che ha toni fra il pavesiano e il dannunziano, quasi da “Novelle della Pescara”: il giovane sembra fare tutt’uno con la campagna, eppure si avverte in questa simbiosi una sorta d’ineffabile malinconia e di sospesa tragedia. Lo stesso giovane, costretto a un lavoro di cura che non sente suo, sfoga la propria aggressività sugli animali: noia o crudeltà? Sarebbe troppo facile rispondere in base a una Weltanshauung rigidamente russoviana o in base a un’altra, altrettento schematicamente sociologica. Sappiamo bene che i modelli di riferimento classici, perlomeno nella loro assolutezza, sono tramontati come tali e che la realtà è molto più sfumata e complessa, meno rassicurante della mera applicazione di uno schema.

Nella Francia di Petain, il film è la storia di una Bildung alla rovescia, dell’ imbarbarimento brutale di una coscienza certamente fragile, ma forse non immediatamente “cattiva”. Non c’è giudizio morale esplicito sul passaggio, a tutta prima incomprensibile, da una prima giovinezza annoiata, forse fatalmente a rischio d’emarginazione, a un destino di delazione (peraltro ben più che individuale e troppo presto rimosso dalle coscienze). La tragedia di Lucien è proprio quella di non saper decidere (all’inizio vorrebbe addirittura schierarsi con i partigiani) e di essere trascinato come una banderuola dagli eventi e dalla propria natura, particolarmente influenzabile, proprio quanto incapace di riflessione e di autocontrollo. In questo senso è anche una condanna, indiretta ma senza appello, a tutte le manipolazioni tipiche dei regimi totalitari (anche di quel totalitarismo debole e mancato che fu il regime di Petain). Ed è la condanna, senza invadenze moralistiche e in perfetto stile verista, di un’educazione famigliare assente, egoista e fintamente tollerante, ma in fondo anch’essa “normale”, soprattutto in tempi bui. Non sono i cattivi a rendere la guerra più spietata, ma i cosiddetti buoni, la maggioranza silenziosa che “si crede assolta” ed è sempre pronta a cambiare pesi e misure pur di giustificarsi.

A decidere la sorte di Lucien, e a rendere ancor più triste il suo destino, è proprio la presenza del caso, che si sostituisce alla volontà del protagonista e ne colma il vuoto con la forza inerte, ineluttabile degli eventi. La telecamera a spalla di Louise Malle, in perfetto e voluto stile documentaristico, rafforza l’impressione di distanza, di giudizio morale contenuto nei fatti, senza alcun bisogno di intrusioni. La posizione “equidistante” costò al regista molte critiche all’uscita del film: erano altri tempi, più ideologici, figli del neorelismo e della guerra fredda. Oggi nessuno più negherebbe la netta condanna dell’autore, assai più potente proprio quanto compatibile con un’amara pietà verso tutti, anche verso i personaggi più scomodi. L’operazione artistica compiuta da questo film è difficile, forse politicamente poco corretta, proprio in quanto la guerra non è mai approfondita nelle sue ragioni storiche, ma vista unicamente come pretesto per scavare nei lati peggiori (eppure ben presenti e in qualche modo fatali) della natura umana. La seconda guerra mondiale è stata soltanto una delle tante circostanze in cui questo può accadere, nonostante le sue ferite non si siano forse mai completamente rimarginate, e gli esiti del bipolarismo che ne conseguì possano dirsi ancora tragicamente presenti. Anche per questa sua attualità, fin troppo anticipataria rispetto ai tempi in cui fu realizzato, Lacombe Lucien andrebbe rivisto e rimeditato come grande opera storica d’autore.

La frase celebre del film è: “Non ne posso più. Sono stanca di essere ebrea”.

COGNOME E NOME: LACOMBE LUCIEN è visibile gratuitamente cliccando 

RUSH

di ALESSANDRO MAGHERINI

RUSH
GB-USA-Germania, 2013
Diretto da Ron Howard
Sceneggiatura: Peter Morgan
Fotografia: Anthony Dod Mantle
Montaggio: Mike Hill, Daniel P. Hanley
Musiche: Hans Zimmer
Con Chris Hemsworth, Daniel Brühl, Alexandra Maria Lara, Pierfrancesco Favino
Durata: 123’

Gli anni Settanta, anni splendidi e terribili per l’automobilismo sportivo, si aprono con il più tragico dei campionati di Formula 1: quello vinto postumo da Jochen Rindt, schiantatosi alla Parabolica di Monza.

Poi, mentre Jackie Stewart ed Emerson Fittipaldi si spartiscono le vittorie delle quattro competizioni successive, si fanno strada due corridori destinati a lasciare un’impronta incancellabile: James Hunt e Niki Lauda. È sulla loro rivalità che è incentrata la storia di Rush, un film altamente spettacolare diretto da Ron Howard, prolifico regista statunitense, già celebre come giovane attore per l’interpretazione di Richie Cunningham nel noto serial Happy Days e giunto nella maturità a vincere l’Oscar per il miglior film e la miglior regia con A Beautiful Mind.

Gli anni in cui è ambientata la vicenda di Rush sono fondamentalmente il 1975 e il 1976, quando Ferrari (con Lauda) e McLaren (con Hunt) vincono in sequenza il titolo mondiale. L’obiettivo si concentra, con ricostruzioni d’ambiente molto accurate, sulle gare principali e sui loro eventi drammatici (soprattutto l’incidente del Nürburgring da cui Niki uscirà sfigurato) che costituiscono uno sfondo estremamente dinamico su cui si innesta il confronto fra due personalità opposte.

Gaudente e istintivo, James Hunt fa vita notturna, beve whisky, fuma spinelli e passa da una donna all’altra; Niki Lauda – che in effetti ai tempi era soprannominato “il computer” e financo “il ragioniere” – si affida a una programmazione rigida, fa vita sana e concentra i propri sentimenti sulla bella moglie Marlene. Entrambi però sono animati da ambizione sfrenata e da una ferrea volontà di vincere. Quello che matura nel corso della storia è il passaggio da un rapporto di odio a un confronto basato sul rispetto che, nel finale, diventa persino affettuoso. Infatti, a ricordare James, morto vent’anni prima di attacco cardiaco, compare il vero Niki, con parole piene di nostalgia.

Rush è, in effetti, un film nostalgico che ricostruisce con perizia tecnica e anche narrativa un brano di quei tempi pazzi e lontani, in una confezione lussuosa e dal ritmo serrato ma mai troppo veloce, capace di conquistare l’occhio dello spettatore e – ritengo – non solo di quello un po’ attempato.

Il film è visibile gratuitamente cliccando questo link:

https://www.raiplay.it/video/2016/09/Rush-22aa4b91-2757-4118-8f96-9f29053212f6.html

La frase celebre è:

Gli uomini amano le donne, ma ancor più delle donne gli uomini amano le auto.

C’ERAVAMO TANTO AMATI

di Alessandra Paganardi

 
Anno:             1974
Regia:           Ettore Scola
Soggetto:      Age & Scarpelli, Ettore Scola
Sceneggiatura:       Age & Scarpelli, Ettore Scola
Con: Vittorio Gassman, Nino Manfredi,Stefano Satta Flores, Stefania Sandrelli,  Aldo Fabrizi. Giovanna  Ralli.
Produttore:   Pio Angeletti, Adriano De Micheli
Casa di produzione:          Deantir
Distribuzione in italiano:   Delta
Fotografia:    Claudio Cirillo
Montaggio:   Raimondo Crociani
Musiche:       Armando Trovajoli
Scenografia:            Luciano Ricceri
Costumi:       Luciano Ricceri
Trucco:          Goffredo Rocchetti, Giulio Natalucci
Durata:          120 min

«Finita la guerra, scoppiò il dopoguerra». Questa affermazione non è soltanto il bilancio consuntivo dei complicati trent’anni intercorsi dalla liberazione alla data di inizio di ambientazione del film, che coincide con la sua esatta uscita (l’anno 1974). È una profezia, l’esergo ideale posto a un secolo per nulla breve e forse non ancora concluso. Ettore Scola lo racconta in uno strampalato Amarcord alla rovescia, tutto da rivedere, discutere e ripensare.

Le storie parallele e inconciliabili di tre ex compagni di lotta partigiana si intrecciano e si coagulano: accade nei ripetuti, amari appuntamenti con i bilanci a cui la vita costringe tutti, ma anche in una sorta di eterno femminino, rappresentato dalla grazia di Stefania Sandrelli (che, a dispetto delle esigenze di copione, appare sempre splendidamente acerba). La narrazione mescola il classico flash back con tecniche decisamente sperimentali anche per l’epoca: oltre all’alternanza di atmosfere e toni (technicolor per i presente, bianco e nero per i ricordi) troviamo un’alternanza di di punti di vista, tanto più spiazzante quanto più ideologicamente ed esistenzialmente incompatibile. I tre “amici al bar”, sempre persi e sempre ritrovati in una Roma fortemente simbolica, rappresentano infatti tre modi reciprocamente escludentisi di vivere la vita, politica, il senso civico stesso di quegli anni e oltre. 

Gianni (Vittorio Gassman) rappresenta l’individualismo affarista, il patto sbilanciato fra ideali e potere, in cui naturalmente sono sempre i primi a soccombere. Troppo precoce la data del film per descrivere i futuri sviluppi della politica italiana, dal craxismo a  Tangentopoli: esiti che ─ con il senno di poi ─ sembra di leggere in filigrana nella magitrale ironia che costeggia i dialoghi, le audaci frantumazioni oniriche, gli innesti narrativi fortemente malinconici e amari. Nicola (Stefano Satta Flores) è l’intellettuale del gruppo, il radical chic incapace di incidere sulla realtà e di fatto consegnato all’emarginazione.

 Antonio (Nino Manfredi), soltanto apparentemente il personaggio di minor profilo, è l’uomo del saggio compromesso: pur non rinunciando mai ai propri principi di fronte alle delusioni politiche, accetta di rinnovarsi e di confrontarsi con il mondo reale. Le tre tendenze, anche volendole proiettare “post eventum” negli anni futuri, sono fin troppo scoperte per essere dichiarate e classificate.

La forza del film sta tuttavia proprio nella sua non ovvietà, nel mescolare pubblico e privato con ironia pungente e con potente teatralità: questo ultimo aspetto, fra l’altro, esprime il talento genuino del regista stesso e di molti personaggi (indimenticabile Aldo Fabrizi nel ruolo caratterista del vecchio palazzinaro romano). Cinema, politica e cultura sfilano sul set come parti di una realtà complessa in cui tutto (compresi i progetti e le utopie) diviene quinta parete, teatro, metateatro. Roma è simbolicamente, ma anche concretamente il set felliniano della Dolce vita. Politici, cineasti, scrittori, intellettuali celebri si confondono con i personaggi, anzi diventano a tratti veri e propri personaggi del cast, che interpretano se stessi nel ruoloparadossale di comparse. Ne risulta un pastiche surreale, che lascia nello spettatore il senso profetico di una complessità che cinquant’anni fa si poteva soltanto intuire, non ancora comprendere: ecco perché, oltre a divertire e a far riflettere, il film arriva a sorprendere. Rivedere opere come questa dimostra, se ancora ce ne fosse bisogno, che l’arte è capace diprevisioni vertiginose, spesso ben più azzeccate e coraggiose rispetto alle sottili  analisi accademiche.

La frase celebre del film è : Vincerà l’amicizia o l’amore? Sceglieremo di essere onesti o felici?

Ci eravamo tanto amati è visibile gratuitamente al link

Emma Peeters

di Alessandro Magherini

EMMA PEETERS

(Belgio-Canada, 2018)
Diretto da Nicole Palo
Sceneggiatura di Nicole Palo
Fotografia di Tobie Marier-Robitaille
Montaggio di Frédérique  Broos
Scenografia di Marine Michelems
Musiche di Robert Marcel Lepage
Con Monia Chokri, Stéphanie Crayencour, Andréa Ferreol, Fabrice Adde
Durata: 90’.

Thanatos ed Eros in una moderna commedia ambientata a Parigi. Emma, aspirante attrice trasferitasi nella capitale francese dal Belgio, alla soglia dei 35 anni conta i suoi fallimenti e cade in una depressione dura e opprimente. Tutti suoi tentativi col teatro e col cinema sono andati male, l’unica cosa che le riesce bene è il suo lavoro di commessa in un magazzino di elettrodomestici ma questo non fa che acuire la sua insoddisfazione. Nulla la tocca, nulla le dà un’emozione, tutto le dà fastidio, il suicidio le pare l’unica via d’uscita dal suo costante stato di frustrazione.

Monia Chokri, attrice québécoise con una certa eco in Europa per avere lavorato con Xavier Dolan, è brava a tratteggiare le sfaccettature del personaggio di Emma, mostrandone i caratteri e i modi da depressa senza mai perdere, tuttavia, il filo sottile di un’ironia che si dipana nel corso di tutta la storia.

Due personaggi femminili comprimari sono Lulù (Stéphanie Crayencour), il contraltare di Emma, quella che passa da una delusione all’altra in modo quasi giulivo, senza mai perdersi d’animo, e Bernadette. Purtroppo quest’ultimo carattere ha una parte marginale ma per l’occhio del cinéphile è un’emozione rivedere, nella parte di una donna anziana di cui Emma si prende cura, l’indimenticabile Andréa Ferreol, interprete di pietre miliari come La grande abbuffata (Marco Ferreri, 1973) e L’ultimo metrò (François Truffaut, 1980).

Il personaggio maschile (ma non si dovrebbe dimenticare il delizioso gatto Jim che non ha affatto un ruolo marginale) è affidato al volto, certamente non bello ma mobile ed espressivo quanto basta, di Fabrice Adde. Si tratta di Alex, impresario di pompe funebri e imbalsamatore, cui l’aspirante suicida si rivolge per organizzare in anticipo il proprio funerale. 

Con precisione maniacale, infatti, Emma ha stilato un decalogo delle cose da fare prima di lasciare la sua valle di lacrime, fra cui, appunto, preparare il funerale e “baiser pour la dernière fois”, scopare per l’ultima volta.

Ma, con le parole del sommo Poeta, “quinci sian le nostre viste sazie” ché una buona recensione deve dire solo fino a un certo punto onde non precipitare in uno spoiler che per un film come questo, con colpi di scena ben calibrati, sarebbe davvero disdicevole.

Un’ultima nota riguarda l’ambientazione: una Parigi non agiografica – anche Montmartre non è visto con occhio “turistico” – e assai godibile, con scene girate in quartieri semiperiferici, come quelle intorno al canale Saint-Martin che collega la Marna con la Senna e offre uno spaccato della città di intensa bellezza ma lontano dai luoghi comuni. 

Il film è visibile gratuitamente su RaiPlay al seguente link: 

https://www.raiplay.it/video/2021/11/Emma-Peeters-19a31d89-9d03-4974-8f3f-cc2f3d999a1e.html

La “frase celebre” è:

“Da quando sono arrivata a Parigi, la dimensione dei miei appartamenti non ha fatto che diminuire… E ora terminerò la mia esistenza in una scatola”.

LA PRIMA NOTTE DI QUIETE

(Italia-Francia, 1972)

di   Alessandra Paganardi

Durata: 132 minuti
Soggetto di Valerio Zurlini
Sceneggiatura di Valerio Zurlini, Enrico Medioli
Regia di Valerio Zurlini
Prodotto da Mondial Te.fi (Roma), Alain Delon per Adel Production (Parigi)
Casa di distribuzione: Titanus
Fotografia di Dario Di Palma
Montaggio di Mario Morra
Musica di Mario Nascimbene
Con Alain Delon, Sonia Petrova, Lea Massari, Adalberto Maria Merli, Giancarlo Giannini, Salvo Randone, Renato Salvatori, Nicoletta Rizzi, Alida Valli
Costumi di Luca Sabatelli
Trucco di Amato Garbini

Dopo la prima inquadratura (un campo lungo sul molo di una Rimini novembrina e Delon che si avvicina avvolto in un famoso cappotto, stavolta cammello) abbiamo già compreso che il professor Daniele Dominici è uno straniero in tutti i sensi, alla maniera del protagonista di Camus. Parla inglese perfetto con una coppia di turisti su una barca battente bandiera australiana e rivela di trovarsi lì per la prima volta, di non poter dare indicazioni. Ma lo spettatore intuisce subito che Daniele non è a sua volta un turista, bensì un apolide. Lo comprende ancora meglio, come in una pellicola che si srotola, dal breve colloquio pieno di reticenze con un preside fascistoide, a cui il docente cela con orgogliosa indifferenza di essere figlio dell’eroe di guerra Dominici. Lo si capisce sempre più dai silenzi, dal buco di tre anni nel curriculum, dalla vita misteriosa di un uomo che cita a memoria Dante e i poeti cinquecenteschi, gioca d’azzardo con occasionali compagni indegni di lui, emette assegni a vuoto sullo sfondo di una provincia sonnolenta e corrotta; ma sembra sempre fuori posto, in un’aula di scuola come in una bisca. E porta dentro di sé un fondo di vulnerato idealismo, capace di convivere con il cinismo signorile di chi, a differenza delle persone volgari, l’accetta, ma non vi aderisce mai con tutto se stesso.

Ci si riconosce fra stranieri, si sa. L’intesa a prima vista con Vanina, studentessa emarginata dai coetanei in quanto portatrice di un passato oscuro, non è un’infatuazione banale tra professore e allievo, con tutte le combinazioni possibili di ruolo e genere. Non è neppure il clone di simili copioni dell’epoca, quasi tutti carichi di implicazioni libertarie e di denuncia politica (primo fra tutti il bellissimo Morire d’amore di André Cayatte). La scuola, a dire il vero, fa da apparato poco più che incidentale: il vero motivo del coup de foudre è il riconoscimento istintivo di un comune destino di diversità. Scenario forte, caso mai, è proprio la riviera in via di definitiva trasformazione: l’orizzonte di malinconia adriatica su cui si stagliano inquadrature che ammiccano alla speculazione edilizia – quasi un’appendice della cementificazione degli anni Cinquanta, ma senza alcun tono di denuncia. Si respira invece un progressivo senso di morte, evocato dai flutti, dalle posidonie, dal vento, dai fari e dalle case abbandonati; ma anche dai cupi destini di decadenza, intuiti o narrati esplicitamente, assai spesso legati alla ferita ancora recente della guerra. Siamo più vicini a Enrico Maria Salerno, con punte a tratti quasi viscontiane, che a Rosi: la Rimini di Zurlini si potrebbe definire una specie di Venezia adriatica, anche per il forte richiamo all’arte, svolto principalmente dalla Madonna del parto di Piero della Francesca (all’epoca ancora visibile nella collocazione precedente a quella attuale). Persino il tema della colonna sonora, firmato da Mario Nascimbene e ispirato a un famoso concerto per flauto di Vivaldi, ricorda qualcosa delle musiche composte da Stelvio Cipriani per Anonimo veneziano. Siamo del resto sempre agli inizi dei Settanta: anni in cui il forte divario culturale fra città e provincia, fra Italia ed Europa faceva ancora guardare con sospetto alla lettura appassionata di un libro come  L’amante di Lady Chatterley da parte di una giovane. Nonostante la contestazione si poteva ancora sentir pronunciare una frase come “Dalle nostre parti non conta che una donna non abbia studiato” e soltanto nelle grandi città i decreti delegati a scuola erano a pieno regime. Ma soprattutto si parlava ancora poco di violenze domestiche, di abusi su donne e minori, di bullismo, emarginazione e adolescenze violate. 

L’amore di Vanina e Daniele è figura stessa della disperazione, non per l’esito ma per la waste lande che ne è teatro, sfondo, testimone e materia. Eppure, tra Goethe e Shakespeare, tra le citazioni di sapore pasoliniano dai Vangeli e le rime di Giovanni della Casa, allo spettatore non è mai preclusa la via euristica di un romanticismo estremo, residuale. Come se il cinismo, il distacco, lo squallore non potessero avere l’ultima parola. Come se da quei fondali bassi, violati a Venezia come in Romagna da una foce troppo vicina, inquinata e invadente, potesse ancora levarsi un antiretorico inno alla bellezza. Come se la prima (e ultima) notte di quiete non identificasse il lungo sonno senza sogni, a cui tutti siamo destinati, ma un incontro senza domani scritto nel codice di due esperienze diversissime eppure convergenti in ciò che Simone Weil avrebbe chiamato malheur, sventura. Forse il nome di Leopardi, pronunciato erroneamente dalla smarrita Vanina in una delle prime scene in classe, non è affatto casuale: è uno sbaglio felice che suggerisce una chiave di lettura possibile, anche se ben lontana dal fornire ricette rassicuranti. La felicità, per noi sempre  effimera o spezzata, è la sola ginestra che può resistere al male e alla fine ineluttabili: e non può farlo, semplicemente, se non realizzandosi in un atto unico, incontrovertibile, vero.

                                                                                                

La frase famosa del film è: “Non c’è che la mancanza di libertà a darti certe ventate d’allegria”.

La prima notte di quiete è visibile gratuitamente cliccando 

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JULIET NACKED – TUTTA UN’ALTRA MUSICA

di Alessandro Magherini

JULIET NACKED – TUTTA UN’ALTRA MUSICA

GB-USA, 2018
Diretto da Jesse Peretz
Soggetto: Nick Hornby
Sceneggiatura: Jesse Peretz, Jim Taylor, Tamara Jenkins
Montaggio: Sabine Hoffman, Robert Nassau
Musiche: Nathan Larson
Con Rose Byrne, Ethan Hawke, Chris O’Dowd, Azhy Robertson,
Denise Gough, Ayoola Smart 
Durata: 97’

Nick Hornby, scrittore prolifico e felicemente “saccheggiato” dal cinema è l’autore di Juliet Nacked, il romanzo all’origine di questa arguta e per nulla evanescente commedia. Dopo i successi di Febbre a 90°Alta fedeltàAbout a BoyJuliet Nacked (sottotitolo Tutta un’altra musica, come il libro edito da Guanda nel 2009), non viene premiato dalle sale italiane e mette insieme incassi di scarsissimo rilievo. Eppure è un film che avrebbe meritato attenzione.

A inizio millennio, ai tempi dell’uscita del delizioso romanzo How to Be Good(Come diventare buoni), il «Times Literary Supplement» osservava che nel testo era «difficile trovare un personaggio per il quale non si provi un impulso di simpatia». È quanto accade anche per questo film che, dipingendo caratteri deboli, problematici e squisitamente umani, muove sorrisi insieme a slanci di partecipazione.

Ambientata in una cittadina costiera del Regno Unito, la storia ci presenta una coppia (Annie e Duncan) ormai palesemente al capolinea e bisognosa di un avvenimento che spezzi l’inerzia di un tran tran privo di soddisfazione. Sarà la comparsa di un CD, appunto Juliet Nacked, cioè una versione senza sovraincisioni (nacked, nuda) di una vecchia ballad la chiave di volta della vicenda. Assisteremo a una sorta di riesumazione, con il ritorno in pista del cantautore americano Tucker Crowe, sparito dalle scene tanti anni prima e confinato nel garage della sua ex moglie dopo una vita di eccessi, e prenderà vita un intreccio ben costruito perché basato su psicologie tratteggiate con cura, anche per quanto riguarda i personaggi di contorno.

Juliet Nacked è un film in cui la musica ha un grande ruolo, in cui si ascolta musica e si parla di musica e ha infatti un regista-musicista, Jesse Peretz, ex bassista del gruppo bostoniano dei Lemonheads. Ben cesellata l’interpretazione di Rose Byrne, attrice australiana dalla ricca carriera (coppa Volpi a Venezia nel 2000), così come quella di Ethan Hawke nella parte di Tucker. Chris O’Dowd evidenzia doti di caratterista nel personaggio di Duncan e non può non piacere il piccolo Azhy Robertson, cioè Jackson, il più giovane nella pletora dei figli di Tucker.

Il film è visibile gratuitamente cliccando questo link: 

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La frase celebre è:

Io apprezzo quell’album più di qualunque altro abbia mai ascoltato, non perché sia perfetto ma per quello che significa per me. Francamente me ne frego di cosa sia per te, l’arte è per l’artista non più di quanto l’acqua sia per l’idraulico.

Pane e Tulipani

di Alessandro Magherini

PANE E TULIPANI 

(Italia  ̶  Svizzera, 2000)
Diretto da Silvio Soldini 
Prodotto da Daniele Maggioni 
Soggetto e sceneggiatura di Doriana Leondeff e Silvio Soldini 
Fotografia di Luca Bigazzi
Montaggio di Carlotta Cristiani
Musiche di Giovanni Venosta 
Con Bruno Ganz, Licia Maglietta, Giuseppe Battiston, Antonio Catania, Marina Massironi, Felice Andreasi, Daniela Piperno, Tatiana Lepore  
Durata: 114’

Chi non ha nostalgia di Bruno Ganz? Nell’ampia serie delle sue interpretazioni cinematografiche, fra l’angelo Damiel di Il cielo sopra Berlino (1987) e il führer di La caduta – Gli ultimi giorni di Hitler (2004), per citare solo due delle più memorabili, si situa il cameriere-cantante Fernando Girasole di Pane e tulipani, islandese dall’italiano forbito, personaggio misterioso, romantico e gentile, oppresso da un male oscuro che lo spingerebbe al suicidio se una circostanza “miracolosa” non lo salvasse.

Una circostanza dal viso dolce, quello di Rosalba Barletta (Licia Maglietta), casalinga pescarese. Lei dice di essere distratta ma in realtà è infelice, vittima di un ruolo tradizionale di moglie in una famiglia piccolo-borghese, che tarpa i suoi sogni e il suo talento musicale. Ed ecco che nel corso di uno di quei terribili viaggi organizzati (a Paestum, nella fattispecie) in cui il tragitto in pullman fornisce l’occasione per vendere materiale da cucina, viene dimenticata dai suoi congiunti in un autogrill. È questa la “trovata” cardinale del film, quella che spalanca a Rosalba le porte del vasto mondo, l’avventura del viaggio fuori e dentro di sé. Come spinta da un élan primordiale, Rosalba risale la penisola in autostop per andare a vedere Venezia, la città dei suoi sogni.

È a Venezia che Rosalba incontrerà Fernando e altri personaggi che contribuiscono alla sua trasformazione: la massaggiatrice olistica Grazia (Marina Massironi) e l’irascibile fioraio anarchico Fermo (Felice Andreasi), mentre la città assolve a una sorta di funzione rituale, alla creazione di un mondo “altro”, con i suoi meravigliosi spazi sospesi. Ma a sua volta Rosalba è, con la sua naturale empatia, come una vivente bacchetta magica che senza saperlo dispensa gioia e ridà vita agli stanchi.

Ovviamente la costruzione della trama ha bisogno anche di una figura antagonista, che si materializza in Mimmo, il marito produttore di sanitari, interpretato da un Antonio Catania che, forse, è un po’ troppo caricaturale, e in Costantino, improvvisato investigatore privato, interpretato da Giuseppe Battiston. In un certo senso è come se le forze della sensibilità si misurassero con quelle della grettezza, in una favola che non è né per bambini né per adulti ma per tutti e nella quale vince la musica.

Considerato il capolavoro di Silvio Soldini (autore di altri film di pregio come L’aria serena dell’ovestAgata e la tempestaGiorni e nuvole), Pane e tulipani ha ottenuto numerosi riconoscimenti (David di Donatello, Nastro d’argento, Premio Flaiano), è stato recentemente restaurato e si presenta, quindi, con audio e definizione ottimi.

Il film è visibile gratuitamente cliccando questo link: https://www.raiplay.it/video/2020/10/Pane-e-tulipani-359b14da-9b22-42fc-90d8-460ca26231b2.html

La frase celebre è:

“Le cose belle sono lente, vieni a prendere il tè!”.

GRUPPO DI FAMIGLIA IN UN INTERNO

di Alessandra Paganardi

GRUPPO DI FAMIGLIA IN UN INTERNO
 
(Italia, Francia, 1974)
 
Soggetto di Enrico Medioli
Sceneggiatura di Enrico Medioli, Luchino Visconti, Suso Cecchi D’Amico
Regia di Luchino Visconti
Prodotto da Giovanni Bertolucci 
Casa di produzione: Rusconi Film
Fotografia di Pasqualino De Santis
Montaggio di Ruggero Mastroianni
Musiche di Franco Mannino; temi musicali tratti da Sinfonia Concertante di Wolfgang Amadeus Mozart
Con Burt Lancaster, Silvana Mangano, Helmut Berger, Claudia Marsani, Stefano Patrizi
Costumi di Piero Tosi
Trucco di Alberto De Rossi
Durata 125 min.


Questo film, il penultimo di Visconti prima de L’innocente, ancor può di altri porta con sé la firma di un’opera teatrale mancata. Proprio in questa mancanza di mira (segno, a volte orgogliosamente ribadito, dell’inattualità del regista rispetto al proprio tempo) si può cogliere la bellezza di alcuni suoi capolavori. L’interno del film è sdoppiato in due ambienti (gli splendidi, malinconici appartamenti d’epoca di proprietà del protagonista), ma è in realtà costituito da un’unica scena teatrale: la residenza del rassegnato professore, di cui quella situata al piano superiore, occupata con invadenza dalla marchesa Brumonti e dal suo pittoresco entourage, rappresenta il prolungamento e per così dire il backstage

Interno è dunque interamente l’ambiente: un palazzo d’epoca con pochi affacci su una Roma onirica, anticipazione di quella Grande Bellezza che, oltre trent’anni dopo, ritrarrà la capitale e l’intero paese in un contesto radicalmente mutato. Ora siamo nel 1974 e ha ancora un senso, o forse è un obbligo parlare di lotta e violenza politica, di utopia, di contrapposizione tra pubblico e privato. Vanno in questa direzione i dialoghi fra i comprimari e il protagonista, interpretato da un Burt Lancaster che ha da tempo deposto il copione del “duro dal cuore tenero” e manifesta, anche nei lunghi silenzi, doti straordinarie di mimica e gestualità. Il personaggio assai complesso della marchesa, sintesi di vitalità, eleganza ai limiti del kitsch e cinismo non alieno da una residua sensibilità umana, sembra ritagliato su Silvana Mangano, un’attrice difficile da inquadrare in un ruolo standardizzato. La parte di Conrad è interpretata da un Helmut Berger al massimo della sua espressività; i due comprimari giovani, infine, non costituiscono certo la componente artisticamente più riuscita del film e danno l’impressione di poter essere sostituiti con chiunque altro, purché compatibile per età e sesso. Ci sono poi le due figure fantasmatiche, puramente evocative della madre (Dominique Sanda) e della moglie (Claudia Cardinale), il cui ruolo sembra essere quello di rappresentare la bellezza assoluta. 

I dialoghi costituiscono, insieme all’ambientazione, la principale nota caratterizzante dell’opera: per la lunghezza, le citazioni, le tirate filosofiche fra Sartre e Marcuse, i dialoghi possono risultare in qualche momento un po’ pesanti, ma si comprendono nel contesto dell’epoca. In questi interni si contrappongono generazioni, mentalità, esperienza e visioni del mondo; forse il conflitto più insanabile è quello tra realtà e sogno − Lebe und Geist, scriveva Thomas Mann, autore molto caro a Visconti   − impersonato dal “professore”, che, forse non a caso, non si presenta mai con il suo nome proprio: appunto perché è una figura allegorica, categoria perenne dell’intellettuale disadattato, incapace di adeguarsi alle bizzarre dell’umanità e della storia. Una via di mezzo fra il manniano Tonio e il musiliano Ulrich, con qualche incursione nel Gustav di Morte a Venezia, ma con un’ambiguità e una complessità ulteriori: infatti il l rapporto fra il protagonista e Conrad è ben altro da una trita relazione omosessuale sublimata, o da una troppo semplice ricerca del padre e del figlio mancati. Esso è la sintesi perfetta e impossibile di tutte le molteplici sfumature dei sentimenti umani: a partire da quelli amicali ed erotici, basati sulle affinità elettive, della philia attica (si pensi alla scena quasi magica del disco o all’altra omologa del quadro), fino ai forti legami di stampo alchemico, che si fondano su certe inspiegabili, spontanee familiarità; il tutto passando per la cura dell’altro e per l’agápe. Ma nulla è destinato a durare, perché, dirà la marchesa nella scena finale, «anche il dolore è labile, come tutto il resto». 

Nell’interno/inferno si consuma quindi un dramma molteplice: relazionale, generazionale, esistenziale e storico. In tempi in cui tutto è concesso e trasgredire non è quasi più necessario, le fumate promiscue di una strana famiglia allargata a un toy boy fanno quasi tenerezza. Fanno ancora impressione, invece, le allusioni a trame e misteri politici mai risolti, ma ben noti. Così come fa davvero senso che l’espediente del nascondiglio segreto oltre la libreria sia stato adottato appena quattro anni dopo, senza più alcuna pretesa estetizzante, dai proprietari del covo di via Montalcini per il rapimento Moro. Un tragico flash-forward, che Visconti non avrebbe mai previsto. 

 Gruppo di famiglia in un interno è visibile gratuitamente cliccando questo link:    

La frase celebre del film è: «A me basta il ricordo del mare a occupare tutta la mia fantasia». 

MOSCA NON CREDE ALLE LACRIME

di ALESSANDRO MAGHERINI

 MOSCA NON CREDE ALLE LACRIME

(Unione Sovietica, 1980)
Diretto da Vladimir Men’šov
Sceneggiatura di Valentin Černych
Fotografia di Igor Slabnevič
Montaggio di Yelena Michajlova
Musica di Sergej Nikitin
Con Vera Alentova, Irina Murav’ëvaRaisa RjazanovaNatal’ja Vavilova, Aleksej Batalov
Durata: 142’

Nel 1981, nonostante la concorrenza di opere importanti come L’Ultimo metrò e Kagemusha, una pellicola sovietica vince il premio Oscar per il miglior film straniero: Mosca non crede alle lacrime.

Si tratta di una specie di soap opera, ironica e garbata, che ha, però, il valore di un documento, con lo straordinario potere di trasportarci non solo nel pieno del secolo scorso ma anche in una società altra, che la storia ha sepolto e coperto di detriti. Non lo fa attraverso una ricostruzione – come, in rapporto alla DDR, più recenti lavori di produzione occidentale quali Goodbye Lenin o Le vite degli altri –, no: quella che vediamo è l’immagine cinematografica dell’URSS, una sorta di biglietto di presentazione di un sistema sociale che, lasciata alle spalle – dimenticata, direi – l’immagine dell’epica rivoluzionaria di Vertov e Eisenstein, sta andando verso la propria dissoluzione ma è ancora una realtà che si presenta come “normale”.

È una normalità in cui intellettuali, professori e poeti sono considerati persone importanti; in cui i manager aziendali non lavorano per il profitto e le stock options ma per raggiungere gli obiettivi stabiliti dai piani di programmazione economica; in cui l’istruzione è capillare, severa e ha funzione di ascensore sociale.

Alla fine degli anni Cinquanta, in una Mosca che è polo di un ampio fenomeno di urbanesimo, Katja, Ljudmila e Tonja vivono, in un pensionato per ragazze, l’avventura della grande città. Si impegnano nel lavoro e nello studio ma si danno da fare anche per un ideale – sposare un buon partito – di non facile realizzazione in un contesto dove gli uomini sono merce rara e talvolta deludente.

La panettiera Ljudmila è la più intraprendente e creativa del gruppo, mentre l’operaia metalmeccanica Katja si trova in difficoltà nelle strampalate situazioni da pochade che l’amica crea con i suoi “maneggi” e invenzioni quasi teatrali. Il risultato delle loro avventure è che Ljudmila riesce ad accalappiare un prestante quanto timido e bisognoso d’affetto giocatore di hockey, mentre Katja viene sedotta, ingravidata e abbandonata da un operatore televisivo succube di una madre che pare incarnare l’universale archetipo della donna egoista e piccolo-borghese. Tonja – figura più defilata – sposa un “bravo ragazzo”.

A questo punto il tono della narrazione cambia e al centro della vicenda viene a trovarsi Katja, interpretata da Vera Alentova, attrice del Teatro Pushkin di Mosca e moglie del regista Vladimir Men’šov. Katja tira fuori la sua forza di volontà: ragazza madre che passa la notte sui libri e la giornata alla pressa, con una formidabile ellissi si addormenta alla fine del primo tempo nella stanzetta del pensionato e si risveglia all’inizio del secondo in un’abitazione tutta sua, con la figlia Aleksandra che è ormai una studentessa ventenne. Nel parcheggio sotto casa l’attende una fiammante Žigulí. Ora Katja è un’altra persona: da tempo si è laureata ed è diventata dirigente della sua azienda, ora lei è una persona importante. 

Naturalmente la storia non finisce qui: contraddizioni vecchie e nuove agitano la protagonista, rimane viva la sorellanza con le amiche di un tempo, tutti i personaggi ritornano invecchiati di vent’anni e, fra avventure e siparietti, una nuova figura arriva a movimentare l’ambiente. Troppe anticipazioni, però, potrebbero guastare il piacere della visione e qui mi interrompo.

Mosca non crede alle lacrime è visibile gratuitamente (richiede un piccolo sforzo linguistico: è in versione originale sottotitolato in inglese), cliccando questo link:

La frase celebre del film è:

“Gli uomini guardano la TV o si ubriacano con gli amici, superati i quarant’anni vegetano e non si puliscono nemmeno le scarpe”.

FESTEN -FESTA IN FAMIGLIA

di Alessandro Magherini

FESTEN – FESTA IN FAMIGLIA

(Danimarca, 1998)
Diretto da Thomas Vinterberg
Prodotto da Birgitte Hald
Soggetto e sceneggiatura di Thomas Vinterberg
Fotografia di Anthony Dod Mantle
Montaggio di Valdís Óskarsdóttir 
Con Ulrich Thomsen, Henning Moritzen, Thomas Bo Larsen, Paprika Steen, Birthe Neumann.

Il 13 marzo 1995 i registi danesi Thomas Vinterberg e Lars von Trier (futuro autore di pellicole fortemente innovative, come Le onde del destinoDogvilleMelancholia, solo per citarne alcune) annunciano il loro “voto di castità”: nasce così il gruppo Dogma 95 che si propone di contrastare la tendenza, sempre più presente nel cinema, all’uso di effetti speciali ed elementi spettacolari. Come un movimento pauperista medievale, cercano di ricondurre il lavoro del cineasta a un’essenzialità monacale che faccia uscire fuori gli aspetti di contenuto e di verità presenti nell’opera, evitando i tratti stupefacenti e l’uso esasperato della tecnologia. Il “voto di castità” è un decalogo vòlto ad eliminare ogni elemento “cosmetico” e “superficiale” dalla narrazione cinematografica. Fra le norme fondamentali troviamo: riprese in location (“le riprese devono essere girate dove il film si svolge”), niente scenografia,macchina portata a mano (dunque niente carrelli o dolly), musica rigorosamente diegetica (“presente quando il film viene girato”), niente trucchi ottici.

Nel 1998, Vinterberg dirige il primo film Dogma: Festen – Festa in famiglia e vince il premio della Giuria al Festival di Cannes.

Festen è una sorta di schiaffo alla società capitalista, patriarcale e razzista, una cannonata al “familismo amorale” che, sembra dire l’autore, non riguarda solo la backward society studiata da Banfield ma si applica pienamente all’alta società di un paese nordeuropeo come la Danimarca.

La storia è sviluppata con profondità psicologica e senso del paradosso, ma è semplice. Per il suo sessantesimo compleanno, il magnate dell’acciaio Helge Klingenfeldt convoca familiari e amici per una grande festa nella sua monumentale residenza di campagna. Sull’incontro pesa un antefatto: la morte per suicidio della figlia Linda, gemella del protagonista, Christian. Gli altri membri della famiglia sono la moglie Else, la figlia di primo letto Helene, l’ultimo figlio Michael. Quando durante il grande pranzo introdurrà un brindisi, Christian denuncerà di essere stato oggetto nell’infanzia, insieme a sua sorella Linda, di orrendi abusi sessuali da parte di Helge. Tutto quello che succede dopo è una conseguenza di questa rivelazione: una forma di cannibalismo nei confronti dell’elemento perturbatore che troverà scioglimento solo con una rivelazione finale che è quasi un messaggio dall’aldilà.

In obbedienza a un altro dei dettami del manifesto di Dogma 95, l’unità di luogo è rigorosa e crea un potente senso di claustrofobia capace di evocare uno storico capolavoro come L’angelo sterminatore di Luis Buñuel (1962). 

Sempre nel 1998 Lars von Trier gira il secondo film Dogma, Idioti. Altri registi, in seguito, aderiranno al manifesto, fino ad arrivare – nel 2005, quando il movimento si scioglie – a un totale di 35 film (fra cui non posso non segnalare il delizioso Italiano per principianti, girato nel 2000 da Lone Scherfig) realizzati secondo il “voto di castità”. 

Festen è visibile gratuitamente in italiano cliccando il link

https://cbo1.movie/4k/MTIxNTc=

La frase celebre del film è, in questo caso, un secco passaggio di dialogo fra Christian e suo padre Helge:

– Non ho mai capito perché tu l’hai fatto.

– Non eravate buoni ad altro.