di ALESSANDRA PAGANARDI
(Italia, 1961) Durata: 122 minuti Genere: Drammatico Anno: 1961 Regia: Michelangelo Antonioni Attori: Monica Vitti, Marcello Mastroianni, Jeanne Moreau, Rosy Mazzacurati, Bernhard Wicki. Sceneggiatura: Michelangelo Antonioni, Ennio Flaiano, Tonino Guerra Fotografia: Gianni Di Venanzo Montaggio: Eraldo Da Roma Musiche: Giorgio Gaslini |
La morte di un amico è (letteralmente) un momento critico nella vita di una persona: non soltanto per l’inevitabile dolore che procura. “Critico” rimanda a “crisi”, scelta. Una persona con cui si sono condivisi momenti felici o meno felici scompare e ci costringe a ridisegnare la mappa della nostra vita, a ripensare a quei momenti e alle scelte passate che hanno determinato le nostre conquiste, forse le nostre frustrazioni. Senza contare che l’amico è generalmente un coetaneo: questo dato banalmente generazionale ci mette di fronte alla nostra morte imminente, alla tremenda fragilità del tutto.
Per Giovanni, scrittore di successo, e per la sua nevrotica moglie Lidia, la malattia terminale e la morte dell’amico Tommaso aprono un varco su un matrimonio al capolinea, ma soprattutto su problemi e dilemmi esistenziali mai risolti: la solitudine, la fedeltà, la passione, il rapporto con il successo e con il denaro, la vacuità e strumentalità dei rapporti umani ̶ forse persino di quelli più intimi e profondi. Sarà un’occasione mondana, nel corso della notte, a far emergere i conflitti latenti, ma soprattutto a rappresentare, in uno scenario sociale apparentemente ricco di ottimismo e di progetti (Milano in pieno boom economico), il vuoto esistenziale che attanaglia la città. Dietro il paravento rassicurante della ricostruzione, e forse proprio dietro l’ansia di modificare radicalmente il panorama metropolitano nel senso di una modernizzazione accelerata, si celano ancora vive le ferite di guerra; nell’ipocrisia e nella forzatura delle relazioni borghesi si legge la frettolosa rimozione del recente, doloroso conflitto civile. La peculiarità del film, in pieno stile antonioniano ̶ soprattutto se consideriamo la cosiddetta “trilogia dell’incomunicabilità”, di cui La notte fa parte ̶ sta nel rappresentare il disagio attraverso la doppia focale interna ed esterna: da un lato campi lunghi su una città ancora deturpata e in rapidissima trasformazione, dall’altro dettagli catturati al microscopio o al rallentatore e dialoghi fortemente intimistici, tipici di certa cinematografia francese, che sappiamo ben presente al regista. Non a caso lo stesso Roland Barthes ha dedicato pagine molto profonde al cinema di Antonioni, definendolo “di vigilanza”; si è parlato diffusamente anche di “soggettività senza soggetto”. Vanno viste in tal senso le lunghe passeggiate di Lidia fra ruspe, macerie, scene di violenza e indifferenza gratuite fino al surreale (memorabile la scena collettiva del pestaggio in una periferia desolata); i passaggi di aerei a bassa quota, fin troppo scopertamente perturbanti di per sé, ma resi soggettivamente ancor più inquietanti attraverso la postura, le movenze e le espressioni dei protagonisti.
Si esce da questo film, meritatamente premiato con l’Orso d’oro al Festival di Berlino, con la precisa sensazione del fallimento totale del linguaggio, ove si tratti di comunicare i sentimenti e soprattutto le emozioni. Il cinema di Antonioni è un cinema di sensazioni, o meglio un cinema di pensiero innestato direttamente sulle sensazioni: senza l’artificiosa mediazione della parola, oppure attraverso la dimostrazione patente della sua insufficienza. Come Antonioni così anche Bergman, scomparso per un curioso caso lo stesso giorno, mese e anno del collega, ha dedicato ai sentimenti un’altra memorabile trilogia: come a dimostrare che una singola opera, forse neppure un’intera serie tematica può bastare a esaurire un tema tanto complesso. Ma mentre Bergman, figlio di un pastore luterano, è ossessionato dalla morte e dagli aspetti inconciliabili tra vita e fede, Antonioni affronta i dilemmi in maniera più laica e aperta, con un distacco che sfiora spesso il cinismo. Nella scena finale, che per ovvie ragioni non descrivo, la macchina da presa è traslata alle spalle degli attori e saluta lo spettatore con un memorabile campo lunghissimo dalle molteplici interpretazioni, che non suggerisce né conclude.
La notte è un film lungo due ore d’orologio, ma appare mirabilmente rallentato, ai limiti delle quasi ventiquattro della vicenda. Se sussistesse qualche dubbio sul fatto che tempo e durata siano (bergsonianamente) entità affatto diverse, quest’opera starebbe a chiarirlo definitivamente: non con un pedante ragionamento filosofico, ma con l’evidenza sensibile, assoluta dell’arte. Forse il film andrebbe visto proprio di notte, non fosse altro che per introdurre lo spettatore nel tempo surreale dell’insonnia, di cui sembra esso stesso magicamente materiato: quel tempo strano in cui tutto appare più grande, ma nel quale la verità, pur rimanendo sempre irraggiungibile, a volte sembra per un attimo così prossima a disvelarsi.
La notte è visibile gratuitamente cliccando sul link
https://www.raiplay.it/programmi/lanotte
La frase famosa del film è: «Sono piena di vizi, ma senza praticarne nessuno».