LA PRIMA NOTTE DI QUIETE

(Italia-Francia, 1972)

di   Alessandra Paganardi

Durata: 132 minuti
Soggetto di Valerio Zurlini
Sceneggiatura di Valerio Zurlini, Enrico Medioli
Regia di Valerio Zurlini
Prodotto da Mondial Te.fi (Roma), Alain Delon per Adel Production (Parigi)
Casa di distribuzione: Titanus
Fotografia di Dario Di Palma
Montaggio di Mario Morra
Musica di Mario Nascimbene
Con Alain Delon, Sonia Petrova, Lea Massari, Adalberto Maria Merli, Giancarlo Giannini, Salvo Randone, Renato Salvatori, Nicoletta Rizzi, Alida Valli
Costumi di Luca Sabatelli
Trucco di Amato Garbini

Dopo la prima inquadratura (un campo lungo sul molo di una Rimini novembrina e Delon che si avvicina avvolto in un famoso cappotto, stavolta cammello) abbiamo già compreso che il professor Daniele Dominici è uno straniero in tutti i sensi, alla maniera del protagonista di Camus. Parla inglese perfetto con una coppia di turisti su una barca battente bandiera australiana e rivela di trovarsi lì per la prima volta, di non poter dare indicazioni. Ma lo spettatore intuisce subito che Daniele non è a sua volta un turista, bensì un apolide. Lo comprende ancora meglio, come in una pellicola che si srotola, dal breve colloquio pieno di reticenze con un preside fascistoide, a cui il docente cela con orgogliosa indifferenza di essere figlio dell’eroe di guerra Dominici. Lo si capisce sempre più dai silenzi, dal buco di tre anni nel curriculum, dalla vita misteriosa di un uomo che cita a memoria Dante e i poeti cinquecenteschi, gioca d’azzardo con occasionali compagni indegni di lui, emette assegni a vuoto sullo sfondo di una provincia sonnolenta e corrotta; ma sembra sempre fuori posto, in un’aula di scuola come in una bisca. E porta dentro di sé un fondo di vulnerato idealismo, capace di convivere con il cinismo signorile di chi, a differenza delle persone volgari, l’accetta, ma non vi aderisce mai con tutto se stesso.

Ci si riconosce fra stranieri, si sa. L’intesa a prima vista con Vanina, studentessa emarginata dai coetanei in quanto portatrice di un passato oscuro, non è un’infatuazione banale tra professore e allievo, con tutte le combinazioni possibili di ruolo e genere. Non è neppure il clone di simili copioni dell’epoca, quasi tutti carichi di implicazioni libertarie e di denuncia politica (primo fra tutti il bellissimo Morire d’amore di André Cayatte). La scuola, a dire il vero, fa da apparato poco più che incidentale: il vero motivo del coup de foudre è il riconoscimento istintivo di un comune destino di diversità. Scenario forte, caso mai, è proprio la riviera in via di definitiva trasformazione: l’orizzonte di malinconia adriatica su cui si stagliano inquadrature che ammiccano alla speculazione edilizia – quasi un’appendice della cementificazione degli anni Cinquanta, ma senza alcun tono di denuncia. Si respira invece un progressivo senso di morte, evocato dai flutti, dalle posidonie, dal vento, dai fari e dalle case abbandonati; ma anche dai cupi destini di decadenza, intuiti o narrati esplicitamente, assai spesso legati alla ferita ancora recente della guerra. Siamo più vicini a Enrico Maria Salerno, con punte a tratti quasi viscontiane, che a Rosi: la Rimini di Zurlini si potrebbe definire una specie di Venezia adriatica, anche per il forte richiamo all’arte, svolto principalmente dalla Madonna del parto di Piero della Francesca (all’epoca ancora visibile nella collocazione precedente a quella attuale). Persino il tema della colonna sonora, firmato da Mario Nascimbene e ispirato a un famoso concerto per flauto di Vivaldi, ricorda qualcosa delle musiche composte da Stelvio Cipriani per Anonimo veneziano. Siamo del resto sempre agli inizi dei Settanta: anni in cui il forte divario culturale fra città e provincia, fra Italia ed Europa faceva ancora guardare con sospetto alla lettura appassionata di un libro come  L’amante di Lady Chatterley da parte di una giovane. Nonostante la contestazione si poteva ancora sentir pronunciare una frase come “Dalle nostre parti non conta che una donna non abbia studiato” e soltanto nelle grandi città i decreti delegati a scuola erano a pieno regime. Ma soprattutto si parlava ancora poco di violenze domestiche, di abusi su donne e minori, di bullismo, emarginazione e adolescenze violate. 

L’amore di Vanina e Daniele è figura stessa della disperazione, non per l’esito ma per la waste lande che ne è teatro, sfondo, testimone e materia. Eppure, tra Goethe e Shakespeare, tra le citazioni di sapore pasoliniano dai Vangeli e le rime di Giovanni della Casa, allo spettatore non è mai preclusa la via euristica di un romanticismo estremo, residuale. Come se il cinismo, il distacco, lo squallore non potessero avere l’ultima parola. Come se da quei fondali bassi, violati a Venezia come in Romagna da una foce troppo vicina, inquinata e invadente, potesse ancora levarsi un antiretorico inno alla bellezza. Come se la prima (e ultima) notte di quiete non identificasse il lungo sonno senza sogni, a cui tutti siamo destinati, ma un incontro senza domani scritto nel codice di due esperienze diversissime eppure convergenti in ciò che Simone Weil avrebbe chiamato malheur, sventura. Forse il nome di Leopardi, pronunciato erroneamente dalla smarrita Vanina in una delle prime scene in classe, non è affatto casuale: è uno sbaglio felice che suggerisce una chiave di lettura possibile, anche se ben lontana dal fornire ricette rassicuranti. La felicità, per noi sempre  effimera o spezzata, è la sola ginestra che può resistere al male e alla fine ineluttabili: e non può farlo, semplicemente, se non realizzandosi in un atto unico, incontrovertibile, vero.

                                                                                                

La frase famosa del film è: “Non c’è che la mancanza di libertà a darti certe ventate d’allegria”.

La prima notte di quiete è visibile gratuitamente cliccando 

https://www.raiplay.it/programmi/laprimanottediquiete

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